Domenica 12 ottobre andrà in onda il gran finale di stagione di “Balene – Amiche per sempre”. La fiction che vanta un cast eccezionale – composto da Veronica Pivetti, Carla Signoris, Filippo Scicchitano, Laura Adriani, Giorgio Tirabassi, Cesare Bocci, Paolo Sassanelli e Manuela Mandracchia – si appresta a concludere il primo ciclo di episodi. Ma, prima di salutare la stagione, abbiamo intervistato Cesare Bocci su “La voce dello schermo“. L’attore è uno dei volti più amati e presenti nel panorama televisivo italiano. Ha fatto parte, infatti, di molti prodotti di successo e ha interpretato tantissimi personaggi che sono rimasti nel cuore dei telespettatori. Uno di questi è senza dubbio Mimì Augello ne “Il commissario Montalbano”. Cesare si è raccontato parlando di cosa l’abbia conquistato di “Balene – Amiche per sempre” e degli aspetti che ha amato dell’interpretare Ettore. Oltre a “Balene”, l’attore ha ripercorso alcuni dei momenti più importanti del proprio percorso artistico e ci ha regalato interessanti considerazioni sulla fine de “Il Commissario Montalbano”. A voi…

Ti abbiamo visto fare il tuo ingresso in “Balene – Amiche per sempre”. Cosa hai amato di questo progetto?
Mi è piaciuta molto la sceneggiatura. Trovare dei dialoghi scritti così bene e la costruzione dei personaggi così dettagliata sono aspetti rari da trovare. L’altro giorno, ho guardato una puntata che non avevo mai visto e ho avuto la conferma della qualità della serie. Inoltre, il cast è composto da grandi professionisti, dalle protagoniste, a Giorgio (Tirabassi ndr.) e Paolo (Sassanelli ndr.). Ho trovato un regista molto preparato e tutti gli altri molto attenti e bravi. È un prodotto nel quale mi sono sentito molto bene.
Riguardo Ettore, quali corde ti ha permesso di esplorare?
È un uomo che viene dal passato ed evidentemente ha avuto un cambiamento, ha fatto delle riflessioni sulla vita che ha condotto fino a quel momento e sui rapporti che ha avuto e rovinato per la carriera e si mostrerà in una maniera differente.
Perché, secondo te, “Balene” è così seguita dal pubblico?
È un prodotto onesto. Parla delle vicende molto realistiche di due donne che hanno una crisi di mezza età e si ritrovano a dover rivedere il progetto della loro vita. È una commedia divertente ed è recitata molto bene.
Una delle parole chiave del tuo personaggio è ‘cambiamento’. Com’è cambiato Cesare?
È cambiato tanto. Il cambiamento te lo impone la vita e le esperienze lavorative ti fanno crescere, sia attraverso i progetti positivi sia attraverso quelli negativi. Con l’età va via quell’ansia della prestazione perché si ha più fiducia in sé stessi, si è più rilassati e non si deve dimostrare più nulla. C’è una serie di caratteristiche, assieme a età, esperienza e vita, che aiutano a trovare una dimensione più rilassata sul lavoro, che diventa più efficace.

Nel percorso di un attore, durante la giovinezza, spesso si è più impulsivi e maggiormente travolti dai sentimenti. Man mano che si cresce, però, si lascia andare quel lato emotivo. Come si riesce a mantenere viva la parte passionale?
Credo sia la passione per il proprio lavoro a contare tantissimo. Tutte le emozioni e ciò che pretende un personaggio nel momento dell’interpretazione sono finzione. Da ragazzo si prova di più l’ansia da prestazione, ma non porta a un risultato. Porta a sprecare tante energie quando invece bisognerebbe concentrarsi sulle sfumature. Se questo lavoro non lo si fa con passione, non va bene.
Sei molto attivo a teatro, in questo periodo sarai impegnato in “Indovina chi viene a cena”. Quali possibilità ti offre questo mondo?
Ti offre la possibilità di fare una carriera. Quando entri a far parte del mondo teatrale diventi riconoscibile perché si crea un rapporto molto intimo e diretto con il pubblico del teatro, che si ricorda di quello che hai fatto. Ovviamente non significa che sia più bello il teatro rispetto al cinema, dipende sempre dalla qualità di ciò che si fa. Mi piace fare, in entrambi gli ambiti, dei bei progetti. Sono mondi che presentano difficoltà differenti. In teatro bisogna fare, ogni sera, lo stesso spettacolo e alla stessa maniera e c’è il rischio, nel rifarlo in continuazione, di esagerare o di togliere qualcosa. Adesso sto per andare in tournée per sei mesi e non è così semplice come si crede. Per quanto riguarda il cinema, invece, tra le difficoltà tecniche ci possono essere, ad esempio, girare prima una scena che vedremo a metà film e successivamente una che va all’inizio. È un andare avanti e indietro nella storia che ti mette in difficoltà nel ricreare lo stato d’animo del personaggio che stai interpretando.
Uno dei personaggi indimenticabili che hai interpretato è sicuramente Mimì Augello de “Il Commissario Montalbano”. Cosa ha rappresentato per te?
Sicuramente ha significato un’opportunità molto grande. Quando abbiamo iniziato, nel ’98, facevo teatro e televisione, avevo realizzato alcuni progetti importanti ma “Il Commissario Montalbano” è stata un’opportunità che mi ha portato ad avere una popolarità molto grande e con essa altre possibilità. A volte si può correre il rischio di rimanere intrappolato in un progetto così duraturo. È durato più di vent’anni. Tuttavia, ho diversificato, facendo cinema, teatro, televisione e conduzione e mi sono sempre svincolato dalle trappole. Il cinema di un tempo non era propenso ad avere attori di fiction. Tuttavia, il vento è cambiato e si è creato uno scambio interessante tra i vari mondi della recitazione. Adesso la qualità dell’attore o dell’attrice lo può portare verso tutti gli ambiti.
Un attore che interpreta un personaggio per lungo tempo riesce a creare un legame affettivo con quel personaggio?
Un progetto lungo così e con repliche riproposte continuamente faceva sembrare che stessimo tutto l’anno a girare Montalbano, in realtà non era così. È vero, ti affezioni al personaggio, al gruppo e si creano rapporti che ti accompagnano un quarto di vita. Sono nate e si sono rotte amicizie, ci sono stati fidanzamenti, matrimoni, divorzi, nascite e purtroppo morti. Non rinnego nulla degli anni in Montalbano, se non che si sarebbe potuto finire con un clima più bello.
Riguardo “Riccardino” e “Il cuoco dell’Alcyon”, qual è la tua opinione sul fatto che non siano stati realizzati?
Non si realizzeranno perché il giocattolo si è rotto e non è aggiustabile. Sono passati anni e non saremmo più credibili interpretando quei personaggi. Senza Alberto Sironi, senza lo scenografo Ricceri, senza Roberto Nobile e Marcello Perracchio è un qualcosa che non riesco a immaginare. È finita. Si è chiuso un ciclo, con lo stesso successo e va bene così.
Quali pensi siano stati gli incontri che sono stati importanti per te?
Quando ho fatto la scuola di recitazione ho subito capito di voler fare l’attore, perché mi rendevo conto di quanto stessi bene. La mia insegnante di recitazione, Marina Garroni, durante il periodo universitario e mentre stavo quasi per laurearmi in geologia, mi disse: “Ma tu non hai mai pensato di farlo professionalmente? Secondo me, dovresti”. Quel momento mi ha caricato e quando c’è stata l’opportunità di fondare la Compagnia della Rancia, che nel giro di sette anni è diventata la compagnia di musical più grande d’Italia, è scattata la scintilla.
E oltre “La compagnia della Rancia” quali sono state altre tappe determinanti?
Dopo “La compagnia della Rancia”, altri due incontri sono stati importanti: il primo è quello con Marco Mattolini. In quel periodo facevo sia l’attore sia il tecnico, venne un regista che doveva fare una sitcom. Cercava uno dei protagonisti e venne a vedere una collega. Stavo smontando, mi aveva visto recitare in scena. Lo trattai pure male, invitandolo a spostarsi perché poteva essere pericoloso stare in quella parte di teatro. Mi aspettò e mi disse: “Mi sto occupando del cast di questa sitcom, ti piacerebbe fare il provino?”. L’ho fatto, mi scelsero. È stata la mia prima esperienza in tv, si trattava di “Zanzibar” con Silvio Orlando, Gigio Alberti, Claudio Bisio, Antonio Catania, Angela Finocchiaro e David Riondino.
Perché è stata così importante questa esperienza?
Con loro ho conosciuto Silvio Soldini, che doveva fare il suo secondo film e cercava il protagonista, dopo diversi provini ci ritrovammo io e Fabrizio Bentivoglio. A quel tempo non mi sentivo ancora pronto e capivo che gli strumenti che avevo da attore non erano ancora sufficienti ad affrontare certe situazioni. Ero sempre in ansia e facevo tutto con veemenza. Ci convocò e disse: “Mi siete piaciuti tutti e due, ma il ruolo è uno e devo scegliere uno dei due. Scelgo Fabrizio perché prima di te ha fatto un film”.
Come hai reagito di fronte a questa situazione?
Ero soddisfatto che fosse andata bene e, alla fine, mi scelse per interpretare il suo migliore amico. Da lì cominciò anche la mia carriera al cinema. Infine, arrivarono anche gli incontri con Alberto Sironi, per “Il commissario Montalbano”, con Cinzia Th Torrini per “Elisa di Rivombrosa”, Francesco Micciché per “Paolo Borsellino – Adesso tocca a me” e “La scelta di Maria”. Tutti gli incontri della mia carriera sono stati importanti e mi hanno portato a tantissime esperienze, sia belle sia brutte, ma servono anche quelle.

Ogni incontro sembra sempre ben collegato con un altro. Pensi sia una caratteristica del tuo percorso o è un fatto comune tra gli attori?
Ogni incontro, opportunità o situazione ne porta sempre qualche altra. Ai miei amici giovani attori, quando sono un po’ tristi e mentre chiacchieriamo mi dicono: “Sai, non sto lavorando”, suggerisco sempre loro di andare a lavorare per vivere, stare sempre curiosi e nell’ambiente e tenersi pronti per quando saranno chiamati. Ovviamente, teatro e cinema servono tantissimo, ma può anche non servire a nulla perché magari arriva il colpo di fortuna in un film di un regista che non conosce ancora nessuno e ti porta un successo enorme. Oppure può capitare che le occasioni te le devi creare piano piano. Io ho fatto mille altri lavori prima di avere una carriera destinata soltanto nella recitazione.
Non ti sono mai pesati i momenti di pausa in cui pensavi: “sono un attore, voglio fare l’attore”?
Ovviamente ci sono dei momenti in cui sei arrabbiato e ti chiedi: “Perché non lavoro come attore?”. Tuttavia, l’importante è pensare di non essere una vittima perché ci sono dei momenti in cui lavori tantissimo e altri in cui sei fermo e poi si riparte. Quando i genitori mi chiedono consigli sui figli che vogliono fare gli attori, dico sempre: “Basta che sia consapevole che sta scegliendo il lavoro più precario del mondo”. Forse a teatro si crea più una carriera più solida, perché si fa piano piano ma, quando ti fai apprezzare in quel mondo, riesci ad avere una maggiore stabilità rispetto al cinema.
Chi è l’attore, secondo te?
È un lavoratore che ha la possibilità di costruire un personaggio e di trasformarsi. Mi diverto tantissimo a interpretare ruoli totalmente lontani da me ed estremi perché sono i più stimolanti. Più un attore si allontana da sé più significa che ha fatto un lavoro importante, ovviamente rendendo credibile un determinato ruolo. Nell’ultimo film che ho fatto per il cinema – “Tornando a Est” – con il regista, Antonio Pisu, abbiamo costruito un personaggio pazzesco. Ero irriconoscibile: aveva il riporto, era strano, parlava in marchigiano e un cattivo. Ogni lavoro ha la propria peculiarità, ma si basa comunque su talento e professionalità.
Questo portale si intitola “La voce dello schermo”. Cosa significa per te ascoltare la voce dello schermo?
È una voce che ti trasmette delle grandi emozioni. L’altra sera ho visto “Familia” e la voce dello schermo è stata una voce potente che mi ha investito con delle emozioni che se ci ripenso mi porta un nodo allo stomaco per il messaggio, per come sia stato realizzato e per la bravura degli attori. È importante per i telegiornali, per il divertimento e per la cultura.
Di Francesco Sciortino

