La voce dello schermo prosegue il suo viaggio all’interno del complicato e affascinante mondo del doppiaggio. Abbiamo intervistato Massimiliano Alto, direttore, dialoghista e doppiatore italiano che rappresenta un esempio di come si possano realizzare degli ottimi doppiaggi anche nel 2021. La sua direzione di “Joker”, il cui adattamento porta la firma di Francesco Marcucci, ne è una prova lampante per la difficoltà che richiedeva il personaggio interpretato da Joaquin Phoenix. Tra gli altri lavori ricordiamo “Lost”, in cui ha doppiato anche Charlie; “Rocketman”, “Yesterday”, “A star is born”, mentre come doppiatore ha prestato la voce al personaggio di Aladdin e ad attori come Casey Affleck, Emilie Hirsch, Sean Austin e Justin Bartha. Massimiliano ci ha parlato della situazione odierna del doppiaggio, riflettendo sui pregi e difetti che riguardano quest’arte ma facendo anche emergere dei campanelli d’allarme che riguardano questo mondo. Parole che lasciano un po’ di amaro in bocca per chi crede ancora nel doppiaggio ma che magari possono servire a far ritornare questo settore ai fasti di un tempo. Infine, Massimiliano ha anche parlato dei The Public Radar, il gruppo musicale di cui fa parte e che tornerà nel 2022 con un nuovo album prodotto da Steve Lyon, uno dei più importanti Producer e Sound Engineer del mondo e che ha lavorato, tra tanti, con i Depeche Mode, Paul McCartney e The Cure. A voi…
Salve Massimiliano. Benvenuto su La voce dello schermo. Partiamo dai personaggi che hai doppiato. Quali sono quelli a cui sei più legato e perché?
Salve a tutti. Sono molto legato ad Aladdin perché rappresenta per me un momento di crescita e di riscatto perché durante l’adolescenza non mi chiamavano più a lavorare e giravano voci false a riguardo. Ho ripreso a lavorare grazie a Renzo Stacchi, persona fuori dal coro e che non si lasciava condizionare. Ha rischiato e mi sembra sia andata bene. Un altro personaggio a cui sono legato è sicuramente “Amadeus”, di cui ho fatto il ridoppiaggio. Ho amato il film dell’1984 ed è stato per me un regalo enorme. È stato uno dei miei ultimi doppiaggi perché dopo ho cominciato a dirigere.
Ti sei diviso tra doppiatore, dialoghista e direttore del doppiaggio. Quale ruolo senti più tuo e perché?
In realtà, come dialoghista poco. Ho fatto diversi dialoghi per lavori che ho diretto ma non è la mia arte. Cerco di curare soprattutto ciò che riguarda l’aspetto tecnico e lavoro con la mia compagna, Giulia Nofri, che è assistente di doppiaggio e mi ha insegnato tanto sul sinc. Sono stato molto più attento su quell’aspetto. Credo che il lavoro del direttore del doppiaggio sia quello che si adatti di più a me perché ho molto rispetto per il lavoro originale e credo sia giusto fare attenzione a non fare dei danni, capire la vera intenzione che hanno voluto dare il regista e gli attori e non tradirla mai. Pensare che si possa fare questo mestiere in maniera diversa è da idioti. Molti direttori credono si possano migliorare delle cose, ma non è così. Bisogna rispettare al massimo l’originale. Come attore/doppiatore non mi ci ritrovo tanto. Sono nato in questo mestiere da bambino, l’ho fatto, ho imparato tanto da grandi maestri ma tornando indietro non lo sceglierei. Mi ritengo più musicista che attore.
Hai lavorato su “Lost”, doppiando Charlie e curando anche il doppiaggio di alcune stagioni. Cosa ricordi di questa esperienza?
L’esperienza più bella è stata quando ho incontrato Damon Lindelof. Ci siamo ritrovati alla casa del cinema, mentre stavano trasmettendo il primo episodio della seconda stagione di “Lost”, che avevo diretto io. L’evento era stato organizzato della Buena Vista. Lui stava facendo una vacanza a Roma e decise di partecipare. Passammo una giornata bellissima. Damon è una delle persone più intelligenti che abbia mai conosciuto, colta, umile ed è stato molto illuminante confrontarmi con lui e conoscere tanti aspetti della sceneggiatura. Erano partiti da un finale e da una scommessa molto difficile perché erano gli anni dell’11 settembre e incentrare una serie su un disastro aereo non sembrava tanto una scelta vincente, eppure è stata una scommessa vinta.
Dal punto di vista tecnico, invece?
La sala spesso si idealizza per chi non la vive. Per chi ci sta dentro a volte diventa un po’ un incubo. “Lost” diventava un lavoro sempre più faticoso perché, con il passare del tempo, arrivavano preliminari, non sapevamo cosa dovevano dire ed è stato molto complicato dal punto di vista della segretezza. Anche gli attori sul set spesso avevano a disposizione soltanto le frasi che dovevano dire loro e non sapevano a cosa avrebbero risposto gli altri. A un certo punto è diventato molto difficile perché non si sapeva di cosa stavamo parlando e mai come in questo caso dovevamo rispettare l’originale. Se un personaggio diceva: “Che cos’è quella cosa?” non potevamo dire “che cos’è quel mostro?”, perché dovevamo stare molto attenti affinché non si dicessero cavolate e non sapevamo come andasse a finire.
Ti ricordi qualche parte che ti ha messo un po’ in crisi in qualche tuo lavoro?
Non ho curato tantissimi dialoghi e credo che ogni dialogo abbia il suo problema. Spesso ci sono dei giochi di parole che negli script originali ci vengono suggeriti. Non basta semplicemente tradurre la battuta, ma anche interpretarla affinché quel gioco di parole venga rispettato. Bisogna essere intuitivi su ciò che si deve trasmettere in modo che arrivi al pubblico. È necessario comunicare ciò che volevano intendere nella versione di partenza. Non ho avuto grandi problemi perché non ho fatto tantissimi dialoghi. Ho visto in giro alcuni dialoghi poco compresi e che poi vengono cambiati in sala. A livello di direzione e di intonazione, questo lavoro non si può più fare senza conoscere l’inglese. Dobbiamo attivare bene l’orecchio, sentire e non limitarsi soltanto a fare tua la battuta.
Da direttore del doppiaggio quali difficoltà possono esserci?
Dipende dal film e le difficoltà sono molteplici. Quando ho visto “Joker”, prima di occuparmi del doppiaggio, mi è preso un colpo. Lo studio che è stato fatto da parte di Joaquin Phoenix non è uno studio che puoi permetterti con il tempo qui. Devi trovare una persona capace di avere un qualcosa dentro capace di comunicare. Su questo credo che siamo stati fortunati perché con Adriano Giannini abbiamo fatto un lavoro pazzesco. Io, lui e Giulia abbiamo lavorato con grande impegno. La difficoltà in quel caso sta nel riprodurre l’emozione nella recitazione che deve andare a scavare in profondità. Se si sceglie l’attore giusto può risultare, in fin dei conti, anche semplice. Un problema può essere che molte volte vengono imposti attori o personaggi che non si adattano all’attore originale. Io oggi non riesco a immaginare chi potrebbe doppiare Woody Allen perché Oreste Lionello non solo era un Padre Eterno come attore e come doppiatore, ma aveva un grandissimo senso dell’ironia. Ci sono dei talenti innati che è difficile trovare. Io cerco di trovarli ogni volta. Il problema può esserci quando io vedo un attore e me ne viene imposto un altro, oppure viene scelto un talent che non è in grado di interpretare quel ruolo. Se venisse scelto un Favino come talent sarebbe diverso, ma spesso non è così. Ricapitolando penso che dipenda dal film e da un entourage dietro che viene imposto e che spesso non è idoneo per realizzare un buon lavoro. È sempre soggettivo questo lavoro. A me piacciono i Beatles e a un altro i Rolling Stones e a volte si tratta di gusti.
Qual è l’importanza del doppiaggio secondo te?
Mah, non saprei. Magari può essere controproducente, ma dico che per me non avrebbe alcuna importanza se la gente sapesse l’inglese. Sinceramente penso che non si potrà mai ridare l’emozione creata da un attore che ha studiato per fare quella cosa, mentre noi magari la risolviamo in dieci minuti. È impossibile. Si possono fare però dei grandi lavori in cui appare questo miracolo che si chiama doppiaggio, dove a un certo punto si dice quello che dicono gli attori, si va a sinc, si riproduce lo stesso suono. Il suono è tutto nel doppiaggio perché se suona male, se suona finto, patinato significa che qualcosa non è andata nel verso giusto. Ormai vediamo delle serie in cui si vede il protagonista che parla sottovoce e ci chiediamo perché sia così “scollato”. Per me il doppiaggio non ha una grande importanza. È nato perché ai tempi l’Italia era un Paese di analfabeti e aveva bisogno di capire cosa stessero facendo nel cinema americano. Il cinema americano stesso ha voluto il doppiaggio perché era un modo per loro per venderlo. Però adesso siamo nel 2021 e spero che le cose siano cambiate. Perché è ridicolo che si sappia ad esempio quanto è bello Brad Pitt ma non quanto sia bravo o che voce abbia nella vita reale. Magari hai trovato la persona sbagliata per l’intervista, ma io vado in punta di piedi nel fare questo mestiere da quarantaquattro anni perché penso che sia uno sfregio, è come se stessimo ridipingendo sopra un quadro. Il doppiaggio è un mezzo di comunicazione, un lavoro profondamente tecnico che sfocia nell’artistico quando si compie un miracolo. Ritengo che “Joker” sia venuto molto bene, ma perché ho avuto la grande fortuna di avere Adriano Giannini che è un attore.
E il doppiatore?
Il doppiatore dei nostri giorni è più concentrato sulla voce, su come la imposta e su come dice bene la battuta ma spesso trascura quello che si sta dicendo.
Quali pensi siano i punti deboli del doppiaggio odierno?
Credo che il doppiaggio odierno è un mondo che fa girare molti soldi, ma allo stesso tempo è composto da moltissime persone mediocri che sono disposte a svendersi pur di farlo. Questo aspetto ha abbassato notevolmente la qualità. Spesso vedo gente che è disposta a scendere sotto le cifre percepite dal contratto nazionale. Spesso, in questo mondo, basta che si offre del lavoro e si va, senza un minimo di coscienza. Se io lavoro su un film, cerco di concentrarmi solo su quello e non mi riempio l’agenda di tantissimi turni, perché non riuscirei a fare bene il mio lavoro. Invece oggi si trovano tantissime persone che si dividono in tantissimi progetti. Questo modus operandi ha creato un abbassamento enorme della qualità, che ha distrutto la categoria. È tutto un insieme di punti deboli: l’abbassamento dei costi, della qualità della scelta dei direttori e degli assistenti, la rapidità di consegna e il marketing del doppiaggio si preoccupa di cosa possa piacere alla gente, mentre una volta era diversa. Non è che Ivan Reitman si preoccupò del fatto che potesse piacere “Ghostbusters”, lui lo ha fatto. Se piace bene, altrimenti amen. Questa è la grandezza degli esseri umani che hanno cambiato la storia, non di quelli che si preoccupano facendo i sondaggi vedendo se la gente vuole una voce oppure no. Sono dei punti deboli che da anni hanno distrutto tutte le nostre figure. È come se i Depeche Mode si preoccupassero del genere di canzone che il pubblico vorrebbe ascoltare!
Credi che il doppiaggio possa essere salvato?
Credo che, come in tutte le cose in Italia, non succederà mai niente per rimediare. La distruzione non sarà la fine, ma sarà fatto male. In Italia le rivoluzioni non sono mai state fatte e non si faranno mai, perché non c’è l’indole. Le rivoluzioni partono da chi dice “no”, altrimenti non parte niente. In Italia non c’è il rischio che scompaia, stanno pensando anche di pensare alla voce artificiale, secondo noi non sarà mai attuabile, ma anche se lo fosse, significa che il doppiaggio continuerà a esistere. Perché per studiare una cosa del genere significa che vogliono continuare a farlo esistere, non a farlo sparire. Se si vuole campionare una voce, per poi utilizzarla, significa che si vuole continuare a doppiare, altrimenti studierebbero un sistema diverso. Non credo che il doppiaggio morirà, penso che sarà sempre peggio. Così come accade in altri ambiti artistici. Il doppiaggio sarà fatto da persone che non doppiano ma a cui sarà data l’opportunità di doppiare. Si comincia da YouTube e si finisce al leggio.
Cosa faresti tu per salvarlo?
Credo che ormai ci troviamo in un punto di non ritorno. Bisognerebbe prendere una categoria di professionisti del settore, valida e che lavora in un certo modo, istituire una sorta di consorzio che decreti chi è degno per dirigere, per doppiare etc. Il problema è che gli studi di doppiaggio, si basano sulle percentuali date dalle multinazionali, seriali o cinematografiche, e volendo risparmiare si affidano a figure che non avrebbe chiamato nessuno, li mettono a dirigere e li mettono a stipendio e non a contratto, in modo da guadagnarci. Io spesso vengo contattato dai capi edizione delle case cinematografiche, che sono loro che scelgono chi vogliono, mi propongono un progetto ed è un sistema diverso, perché ho più possibilità di scelta e libertà per realizzare al meglio un lavoro. Per fare un lavoro di qualità bisogna affidarsi a professionisti mirati, ma non vedo come si possa salvare. Credo che siano scelte che partano a monte e si possa fare ben poco. Sinceramente non mi sembra di aver letto critiche nei confronti di “Joker”, anzi. Credo si possa ancora far bene questo mestiere se uno vuole, ma non sono molto ottimista a riguardo.
Dalle tue parole emerge una certa rassegnazione…
Nei confronti di questo mondo, sono un po’ arrabbiato e mi sento un po’ sfinito. Io, come altri, abbiamo dato molto a questo settore e abbiamo lottato tanto ma senza ottenere altrettanto per la categoria. Per quanto mi riguarda mi ritengo soddisfatto dei progetti che mi coinvolgono, ma non posso dire altrettanto per la categoria. Credo che prima il doppiaggio avesse più fascino, fuori dalla sala il doppiatore era più silenzioso, non si sapeva che faccia avesse ad esempio il doppiatore di Sean Connery e credevamo che quella fosse realmente la sua voce. Ora è tutto più social, un continuo vantarsi e apparire. I cartonati pubblicitari dei film sono stati sostituiti dai post su Instagram. Il marketing ha preso il sopravvento nel mondo del doppiaggio e a volte vengono chiamate persone non del mestiere per far vendere di più il prodotto in Italia e perché hanno i follower.
Guardi i film in originale o doppiati?
Non ho problemi solitamente. Li vedo in lingua originale quando proprio vedo che il doppiaggio è stato fatto davvero male. Altrimenti lo vedo comunque doppiato. È sempre un modo di capire cosa stia succedendo. Faccio spesso paragoni con la musica e quando si ascolta si ha sempre il dovere di capire cosa si percepisce. Altrimenti, parlerei male a priori e non credo sia giusto. Penso ci sia la necessità di essere al corrente di quello che si fa, ascoltarlo attentamente e dopo posso parlare e dare un mio giudizio. Bisogna capire le differenze e lo si può comprendere solo studiando. Nell’ambiente del doppiaggio spesso manca questo aspetto, perché si comincia spesso da piccoli. Il doppiaggio spesso è come una sorta di ibernazione: c’è gente che a trent’anni viene chiamata ancora a doppiare i ragazzini. È come se non ci si rendesse conto del tempo che passa. Mi piacerebbe diffondere il messaggio che bisogna studiare prima di fare qualsiasi mestiere. Non ci si improvvisa, neanche per il doppiaggio.
Parliamo di un argomento a cui tieni tantissimo: la musica e il tuo gruppo, The Public Radar…
Ti ringrazio per avermelo chiesto perché ritengo la musica parte integrante della mia vita e non l’ho mai considerata come un hobby né tanto meno l’ho mai messa in secondo piano. Purtroppo, il mondo della musica è molto complicato in Italia. Io ho lavorato per fare il musicista e ho sempre voluto fare della musica diversa e particolare. Credo che qui, per fare un esempio, non sarebbero mai nati i Radiohead. Ho fatto il mio esordio nella musica nel 1997 con il mio gruppo chiamato Web, vincendo anche Sanremo Rock, ma le case discografiche a quei tempi erano molto restie a produrre rock in Italia, essendo un rock più estremo che sfociava nel grunge ed era molto difficile affermarsi, soprattutto in quella realtà. Credo di essere stato molto sfortunato nel mondo della musica. Adesso, con i The Public Radar, abbiamo ricominciato un po’ per gioco grazie a una recensione di un nostro vecchio vinile realizzata su Youtube da un proprietario di un negozio di dischi di Roma. Dopo pochi giorni un’etichetta discografica ci ha proposto di realizzare un disco, ci serviva un produttore che ci permettesse di realizzare un bell’album e lo abbiamo proposto a Steve Lyon, che non ha bisogno di tante presentazioni. Siamo davvero contentissimi ed entusiasti di come stia venendo e dovrebbe uscire il prossimo anno. Sicuramente il tocco di Steve Lyon sarà determinante e abbiamo capito che basta poco per fare le cose bene se c’è la passione. Per me è un’esperienza pazzesca ed è il progetto che credo di meritare anche per l’amore che provo nei confronti della musica. Ci tengo particolarmente perché secondo me è il progetto della qualità e che bisognerebbe sempre cercare di inseguire in ogni campo. Siamo consapevoli che magari i prodotti di nicchia non vendono come altri, ma è importante avere delle idee nuove, fare le cose bene e in maniera diversa.
Questo portale si chiama “La voce dello schermo”. Cosa significa per te ascoltare la voce dello schermo?
Il cinema è una delle cose più belle che esistano e l’unica cosa che mi è mancata in questo periodo è stato il cinema. Lo schermo è tutto per me, se la voce che hanno messo a quella del protagonista mi fa immedesimare a tal punto da non pensare al doppiaggio significa che è riuscito benissimo. Se invece percepisco che c’è qualcosa di diverso, vuol dire che c’è qualcosa che non va. Di solito mi lascio trasportare a prescindere, senza portare il lavoro quando vado al cinema. Il cinema e la musica sono due delle cose più belle che ritengo ci siano nella vita.
Di Francesco Sciortino