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Intervista a Francesco Di Leva: “‘Nottefonda’ mi ha fatto riflettere su quanto sia importante vivere il presente. Amo dare valore alle emozioni” L’attore, che ha vinto la scorsa settimana il suo secondo David di Donatello, si racconta su “La voce dello schermo” parlando di “Nottefonda”, di “Familia”, del NEST e di altri importanti aspetti della propria carriera.

Mag 14, 2025
Foto: Lorenzo Taliani Styling: Valeria Amery Palombo Look: Sandro Paris Location: Hotel Villa Pamphili Roma Press: Lorella Di Carlo

L’8 maggio è uscito nelle sale “Nottefonda”, film diretto da Giuseppe Miale Di Mauro e con protagonisti Francesco Di Leva, Mario Di Leva e Adriano Pantaleo. Abbiamo avuto l’onore e il piacere di intervistare, su “La voce dello schermo”, Francesco Di Leva, reduce dalla recentissima vittoria ai David di Donatello come miglior attore non protagonista per la sua interpretazione nei panni di Franco Celeste in “Familia”. L’attore ci ha parlato di cosa abbia significato per lui far parte di “Nottefonda” ed esplorare l’oscurità della perdita attraverso il personaggio di Ciro, un padre e marito distrutto dalla scomparsa della moglie. Dal buio di “Nottefonda” a quello di “Familia”, Francesco ha raccontato le emozioni del secondo David di Donatello in carriera, ottenuto grazie alla sua interpretazione nel film di Francesco Costabile nei panni di un padre violento, un ruolo che lo ha fatto vacillare per l’estrema negatività che lo caratterizzava. Ma se il personaggio ha suscitato terrore, l’interpretazione di Francesco ha lasciato a bocca aperta addetti ai lavori e pubblico per la complessa psicologia che è riuscito a trasmettere a Franco. I due David vinti, il rapporto di padre e collega con il figlio Mario, il NEST, il teatro, questo e altro nella nostra intervista a Francesco Di Leva, un attore che è riuscito, con la sua bravura, a illuminare personaggi che affrontano l’oscurità in maniera differente. A voi…

Foto: Lorenzo Taliani
Styling: Valeria Amery Palombo
Look: Sandro Paris
Location: Hotel Villa Pamphili Roma
Press: Lorella Di Carlo

Salve Francesco, benvenuto su “La voce dello schermo”. Dall’8 maggio ti stiamo vedendo al cinema in “Notte fonda”. Il film esplora l’oscurità della perdita. Cosa hai amato di questa esperienza?

Salve a tutti, grazie. “Notte Fonda” mi ha lasciato una nuova prospettiva su come affrontare i problemi della vita e mi ha fatto capire ancora di più quanto sia importante tenersi strette le persone a cui teniamo e godersi la loro compagnia nel momento in cui si sta insieme. Crediamo sempre che ci possa essere tempo per i rapporti, sia d’amicizia sia d’amore. Invece, dobbiamo sfruttare e viverci di più il presente. Il personaggio di Ciro mi ha fatto riflettere su tante cose, perché è una persona sola ma che prima aveva tutto. Inoltre, interpretarlo mi ha fatto comprendere, in merito al dolore e alla perdita, che non c’è un tempo preciso per l’elaborazione del lutto e che non si deve respingere questo sentimento, ma è necessario attraversarlo.

Com’è stato affrontare questo viaggio con Mario, tuo figlio?

È stato sorprendente perché ogni padre sa che deve essere forte e deve dimostrare sicurezza al proprio figlio. In questo caso, percorrendo questo viaggio, mi sono sorpreso molto perché Mario ha preso in mano le redini di quello che avrebbe dovuto essere un rapporto di coppia più orientato verso la direzione padre – figlio e con la figura paterna che aiuta. In realtà, lui ha teso la mano verso Ciro e verso il padre, attuando per certi versi un’inversione dei ruoli. Il suo personaggio, Luigi, rappresenta la speranza, il sostegno, l’amicizia e il calore, che il più delle volte sono sentimenti che dovrebbe trasmettere un padre. Invece, è stato incredibile vedere come quell’ometto resistesse a tanto dolore e avesse sempre una parola di conforto sia da personaggio sia da collega.

La recitazione si spiega a un figlio o è una cosa naturale?

Quando il figlio sogna il cinema come hai fatto tu ai tuoi tempi è tutto più semplice. Non si tratta di fare la lezione sul cinema, sul teatro o sull’essere attore. È uno scambio che va avanti da tantissimo tempo. Si spiega negli anni, attraverso il rapporto e i piccoli gesti, che possono essere il consigliargli di vedere “Milk” con Sean Penn invece di guardare video su Youtube o vedergli interrompere la partita che sta facendo alla Playstation per commentare con me lo studio di una una sceneggiatura. Inoltre, ha un riferimento tangibile e ha avuto la fortuna di assistere a tantissimi spettacoli al NEST. Va a teatro e al cinema guarda film come “C’era una volta in America” e “Taxi Driver” in lingua originale. Cerco di consigliarlo ma è molto indipendente, non va, infatti, ai provini con me perché non voglio che sia influenzato dal padre attore. È un rapporto sano e di condivisione.

Foto di Mario Schiano

Il Nest è una bella storia di rinascita e di arte. Cosa rappresenta per te?

È un figlio, come lo sono Mario e Morena, che va coccolato, protetto, indirizzato verso ciò che è meglio per lui, che ti mette in discussione e ti fa ragionare o dialogare con le persone. È come una famiglia ed è una forma di confronto che si estende verso gli altri. Con grande piacere, quasi tutti sono favorevoli a questa forma di esperienza collettiva.

L’interpretazione in “Familia” ti ha regalato il secondo David di Donatello della tua carriera. Eri molto emozionato e teso. Come mai?

Vivo le premiazioni come momenti di estrema importanza. Amo dare valore a ciò che accade e alle emozioni. I premi diventano interessanti se siamo noi artisti a dare loro un valore. La mia euforia è stata definita ‘un’esultanza da stadio’. Non vado allo stadio e non seguo tanto il calcio, ma amo il momento della premiazione durante la finale Champions League e vedere chi festeggia e chi piange, perché chi celebra la vittoria dà valore al premio ricevuto mentre il dispiacere dei vinti racchiude sia l’impegno messo per arrivare lì sia uno stimolo per riprovarci in futuro. Nei momenti di festa e durante le premiazioni gioisco o mi arrabbio, vivendo ed esternando le mie emozioni al cento per cento. Se mi trovo tra i candidati e tra i possibili premiati, mi voglio godere quella serata perché non festeggiare non darebbe il giusto valore a quel premio. Ricordiamo che Benigni saltò tra le poltrone nel momento della vittoria agli Oscar e quella scena mi fece gioire tantissimo. Ognuno festeggia come gli pare, basta che ci sia rispetto.

Durante il primo David, per “Nostalgia”, la reazione è sembrata più posata…

Sì, mia moglie mi ha fatto rivedere la premiazione di recente ma, anche lì, salendo le scale, ho esultato con un gesto che faccio spesso nei momenti di gioia. Forse era una serata che ho vissuto in maniera diversa. Entrambi i riconoscimenti sono stati inaspettati per me, ma quello vinto per “Familia” racchiude tanti stati d’animo contrastanti che mi hanno accompagnato durante questi mesi.

In che senso?

Non volevo nemmeno accettare il ruolo di Franco e ho dovuto convivere con i commenti negativi che un personaggio del genere può suscitare. Sentirseli addosso non è semplice. Interpretare un ruolo così poco empatico – feroce e negativo agli occhi di tutti – e che non amerà nessuno è difficile e molti non si prendono la responsabilità di farlo. Nel momento in cui lo interpreti, gli addetti ai lavori ti premiano, si accorgono della profondità dell’interpretazione e che sei riuscito a incutere terrore e a dare un’importante psicologia emotiva al personaggio, puoi soltanto esserne felice. La felicità è bella perché non la controlli ed è istintiva e vera. Mi piacciono i confronti con le persone autentiche, perché attraverso l’istinto e la sincerità si costruiscono le migliori amicizie e le relazioni d’amore.

Hai parlato delle titubanze che hai avuto nell’accettare un ruolo così negativo e il suo lato oscuro. Per un attore non è stimolante interpretare un personaggio del genere?

Non saprei. Si innescano tanti ragionamenti. Spesso l’attore non sceglie i ruoli in base a cosa gli suggerisce l’istinto, ma c’è la tendenza a legarsi razionalmente a un personaggio, alle storie, a fare film soltanto da protagonista o vestendo i panni di qualcuno che può raccogliere il consenso di tutti. Ma queste dinamiche fanno un po’ perdere il senso dell’essere attore, che comporta prendersi delle responsabilità. Dico sempre, scherzosamente, che ho accettato questo ruolo dopo aver visto un’intervista di Leonardo Di Caprio in cui diceva che voleva rifiutare il suo ruolo in “Killers of the flower moon”. Quando chiamai la mia agente, per comunicarle la mia volontà di far parte di “Familia”, le dissi: “se ha accettato Di Caprio, posso farlo anche io” (ride ndr). Ho cominciato questa avventura e ho avuto la fortuna di essere diretto da Francesco Costabile, che sapeva come costruirlo. Inoltre, la sceneggiatura era scritta benissimo e ti catapultava in quella dimensione umana.

Foto di Mario Schiano

L’altra interpretazione da David, quella in “Nostalgia” di Mario Martone, cosa ti ha lasciato?

È stato un enorme vortice di emozioni perché ho lavorato con Mario Martone, interpretando un personaggio che non avrei mai pensato di fare nella mia vita: un prete così, guerriero e che sembrava un supereroe all’interno del suo quartiere. Mario mi scelse attingendo dalla mia realtà e dal mio modo di fare e di essere. Conosceva, infatti, come esternassi le mie emozioni o come potessi battere i pugni su un tavolo per far vivere il Nest insieme ai miei colleghi. Era un film che faceva rivivere il romanzo di Ermanno Rea, rappresentando qualcosa di importante: il cuore del Rione Sanità in un momento storico particolare. È stato importante, inoltre, fare questo viaggio con Padre Antonio Loffredo, con cui ho passato tre mesi alla Sanità. Ho avuto modo di osservarlo mentre dialogava con le persone o mentre si arrabbiava o quando celebrava omelie o battesimi in strada. Padre Antonio Loffredo è stato per il Rione un supereroe dei nostri tempi.

Il Teatro invece perché è stato ed è importante per te?

Il teatro è formazione. Il cinema non decidi tu se farlo o meno, a volte hai la possibilità di scelta se fare o no un personaggio, il teatro invece posso decidere di farlo in qualsiasi momento o luogo. Posso recitare qualcosa e farla diventare subito teatro. Il teatro necessita della presenza dell’attore e l’attore a sua volta della presenza del teatro, perché c’è un patto bellissimo secondo il quale l’uno non esiste senza l’altro. Il film lo puoi proiettare senza nessuno in sala, diventerebbe comunque poesia. Se non viene nessuno a teatro, invece, difficilmente la compagnia reciterà per se stessa.

Se fossi un giornalista che domanda faresti a Francesco?

Gli chiederei se continua a sognare. Risponderei di sì, continuo a sognare come ha fatto mia figlia Morena, perché a volte i sogni si avverano.

Come si diventa un bravo attore?

Con la costanza, la determinazione, con qualcosa che non dici a nessuno e che tieni per te stesso e tutte le persone che vogliono fare gli attori sanno cosa sia quel qualcosa.

Questo portale si intitola “La voce dello schermo”. Cosa significa per te ascoltare la voce dello schermo?

La voce dello schermo è un’esperienza collettiva e sentire quella voce che ti coccola e che tu non conosci è molto bello.

Di Francesco Sciortino

By lavocedelloschermo

Francesco Sciortino, giornalista pubblicista dal 2014, appassionato di serie tv, cinema e doppiaggio. In passato cofondatore della testata online “Ed è subito serial”.

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