Da bambino ha incantato il mondo della recitazione con le sue indimenticabili interpretazioni in prodotti come “Io speriamo che me la cavo” di Lina Wertmüller; “Ci hai rotto papà” di Castellano e Pipolo; e “Amico mio” nei panni di Spillo e al fianco di Massimo Dapporto, Claudia Pandolfi e Pierfrancesco Favino. Adesso, Adriano Pantaleo sta vivendo un grandissimo momento artistico, essendo reduce da due dei titoli più interessanti usciti nelle sale cinematografiche nell’ultimo periodo: “Nottefonda” di Giuseppe Miale Di Mauro e “La vita da grandi” di Greta Scarano.
Con grande piacere, abbiamo intervistato Adriano su “La voce dello schermo”, che ci ha raccontato il suo percorso di crescita artistica e umana tra un set e l’altro e ci ha parlato delle interessanti e intense esperienze recenti. “Nottefonda”, al fianco di Francesco e Mario Di Leva, gli ha permesso di esplorare, infatti, la perdita e lo stato d’animo con cui deve convivere il personaggio di Carmine in seguito al suicidio del suocero. “La vita da grandi”, al fianco di Matilda De Angelis e Yuri Tuci, invece, è stata un’importante occasione per trattare la neurodivergenza attraverso la delicata regia di Greta Scarano. Le sfide lavorative recenti, i suoi esordi, il Nest, l’amore per la recitazione che condivide con la figlia Margherita e il desiderio di condividere in futuro un set con lei. Questo e altro nella nostra intervista a Adriano Pantaleo: un attore che ci ha dimostrato cosa significhi diventare grandi, nella vita e nell’arte. A voi…

Salve Adriano, bentornato su “La voce dello schermo”. Partiamo da “Nottefonda”, cosa ha rappresentato per te questa esperienza?
Salve a tutti, bentrovati. È stata un’esperienza meravigliosa. “Nottefonda” per tutti noi ha un significato particolare perché segna il debutto cinematografico della nostra compagnia (Nest ndr.) che a me piace definire ‘un collettivo artistico’ per ciò che abbiamo fatto, che facciamo e che siamo. È il debutto cinematografico di un gruppo di artisti che da quasi vent’anni hanno deciso di unire le proprie forze a Napoli e hanno portato avanti una propria idea di pensiero artistico e culturale in questa città. Realizzare uno degli obiettivi che ci eravamo prefissati da ragazzini ci ha riempito di gioia.
Come nacque questa collaborazione?
Ci siamo conosciuti in occasione dello spettacolo teatrale di “Gomorra”, quando nel 2006/07 il Teatro Stabile di Napoli lo produsse, partendo dalle bozze del libro che Roberto Saviano aveva regalato a Mario Gelardi. A quei tempi non era uscito nemmeno il film, ci ritrovammo all’interno di un’esperienza inizialmente piccola ma che, in seguito, ci scoppiò in mano come una grande bomba. Ci ha catapultati a fare una tournée di tre anni tra Italia ed Europa con uno spettacolo che non aveva una valenza soltanto teatrale, ma anche culturale e sociale.
In che modo questo incontro ha contribuito alla fondazione del Nest?
Questa esperienza ci ha uniti e abbiamo deciso di fondare una nostra compagnia con Carmine Guarino, che è anche uno degli scenografi di punta del cinema italiano. Tra i nostri sogni c’era quello di debuttare anche al cinema, seguendo la scia di “Teatri Uniti” o “Falso Movimento” e che avevano riguardato artisti fenomenali come Toni Servillo, Antonio Neiwiller e Mario Martone. Grazie a “Nottefonda” abbiamo potuto realizzare questo sogno ed è stato molto bello ed emozionante.
Da attore, quali corde ti ha permesso di toccare Carmine?
Interpretare Carmine è stata un’esperienza molto potente, essendo un personaggio che vive una situazione difficile e legata a un evento traumatico: il suicidio del suocero. Il film affronta la perdita e il lutto e cerca di metabolizzarlo, portandoci all’interno di questo mondo del dolore molto complesso. In una società come la nostra, il lutto sembra quasi un tabù e talvolta sembra quasi non esistesse.
Perché è stato così complesso raccontare una tematica del genere?
La perdita di una persona cara per suicidio è una delle più complesse e dolorose per chi resta, perché porta con sé una serie di sentimenti, come il senso di frustrazione e di colpa e ti porta a dire: “se solo avessi capito o saputo…”. Questo dolore inespresso sembra volere giustizia, che in un primo momento porta alla ricerca di un colpevole e poi a un sentimento più pericoloso che è quello della vendetta.
In che modo questo stato d’animo ha riguardato il tuo ruolo?
Carmine, nella notte in cui incontra Ciro, ha subìto questo lutto e ne attribuisce la colpa al datore di lavoro della fabbrica in cui lavorava il suocero, perché l’aveva licenziato senza giusta causa. È convinto sia stato questo il motivo che ha spinto il padre della compagna a togliersi la vita e cerca una pistola per vendicarsi.
Come sei riuscito a entrare nella psicologia di un personaggio del genere?
Ho passato un’esperienza simile nella mia vita a quella accaduta a Carmine, ma sono stato fortunato perché la persona a me cara che ha tentato il suicidio è riuscita a salvarsi. Per fortuna non ho vissuto il dolore della perdita, ma la fase in cui è stata in coma e in cui le sono stato molto vicino mi ha segnato profondamente. Rivivere attraverso Carmine questo mio vissuto è stata un’esperienza molto forte e mi ha aiutato probabilmente a metabolizzarla meglio. Sono arrivato alla conclusione che il dolore sia giusto attraversarlo e non scacciarlo. “Nottefonda” cerca di dare alcune spiegazioni a riguardo.
Quali pensi siano gli interrogativi che il film pone allo spettatore?
Una chiave di lettura importante che il film affronta è il dolore che accomuna entrambi i personaggi, che sono stati vittime di una perdita di una persona cara a causa di un’ingiustizia. Mentre Ciro ha perso la moglie in seguito a un incidente stradale e il proprietario della macchina che ha causato l’incidente non è mai stato ritrovato; Carmine vuole vendicare il suocero. Il film porta a chiedersi dove siamo disposti a spingerci per conquistare la nostra giustizia, cosa significa ottenerla e come il dolore possa influenzare le decisioni delle persone, che vengono accecate dal sentimento che provano.
Ti sei dato delle risposte a queste domande?
Credo che l’arte non debba per forza dare delle risposte, ma spesso deve camminare di fianco a delle domande per poi eventualmente fornire delle informazioni da cui lo spettatore possa trarre le proprie conclusioni. Quando guardo un film, non amo particolarmente prodotti che diano risposte univoche a delle domande. Attraverso il nostro mestiere possiamo dare un contributo nell’approfondire determinate tematiche e affrontarle in una maniera tale da arricchire chi vede il film.
C’eravamo sentiti anni fa in occasione dello spettacolo “Non plus ultras”…
Sì, a proposito di domande e risposte, quella fu un’altra esperienza fondamentale per me perché ho cercato di camminare di fianco a tante domande che ci si pone e a non dare risposte. È stata un’occasione molto formativa perché mi ha permesso di svolgere una vera e propria indagine teatrale che è durata due anni. Mi ha proiettato all’interno del mondo delle curve, mi ha portato a informarmi sia dal punto di vista degli ultras sia da quello di chi quel mondo cerca di contrastarlo – come le forze dell’ordine, l’osservatorio delle manifestazioni sportive e i familiari degli ultras – nel momento in cui sfocia in atti di violenza.
Cosa ti ha fatto comprendere questa esperienza?
Ho capito che non avrei potuto dare risposte ma soltanto raccontare un punto di vista inedito, perché una delle prime regole di quel mondo complesso è non parlare degli ultras. La percezione mediatica che arriva è spesso l’evento drammatico secondo cui l’ultras diventa oggetto e soggetto di eventi che vengono raccontati dai media e in cui vengono riportati gli scontri e gli atti vandalici. Tuttavia, non si ha a disposizione tutta la narrazione nascosta di quello che è l’altro aspetto che lo rende uno dei maggiori movimenti d’aggregazione di massa e andrebbe studiato, analizzato e coltivato con minore superficialità senza etichettarlo come spesso si fa e senza fare generalizzazioni perché ho conosciuto grandi manager, avvocati e professionisti che dal lunedì al venerdì conducono una vita normale e nel fine settimana diventano ultras.

Secondo te, il Nest ha contribuito a una tua crescita artistica?
Non riesco a dire quanto abbia contribuito alla crescita del mio percorso, perché lo vedo parte integrante di essa e fa parte del mio essere attore e artista. Noi siamo il Nest e il Nest siamo noi. Sono due strade che comunicano costantemente tra loro e si arricchiscono a vicenda. Noi diamo qualcosa a lui e lui dà qualcosa a noi. Il Nest è fatto di scelte, investimenti lavorativi, professionali, umani ed economici di un gruppo di persone che quindici anni fa ha creduto in questo. Oggi siamo veramente felici e grati per questo.
Come pensi di essere cambiato in questi ultimi anni?
Credo di essere cambiato tanto, sono cresciuto molto, anche fisicamente. Quando mi guardo mi sento e mi vedo più padre rispetto a prima. Adesso, sento più miei determinati ruoli che mi vengono proposti. Il percorso di un artista e di un attore è fatto di momenti per cui determinate cose accadono perché era il momento giusto in cui dovevano succedere. Quando accade qualcosa non penso sia sempre un caso, anzi non lo è quasi mai. Nonostante abbia soltanto quarantadue anni, faccio questo lavoro da trentatré anni, provo a farlo in un determinato modo e tutti i giorni provo a coltivare e alimentare questo mio percorso attraverso scelte e provando a costruire una carriera passo dopo passo. Quando arrivano risultati mi piace pensare che siano il frutto di tanto lavoro e di tanto sacrificio fatto negli anni.
Cosa cambia da attore ragazzino ad attore adulto?
Cambia tanto, tantissimo. È come vivere artisticamente e professionalmente vite diverse. C’è un filo rosso che lega tutto il mio percorso artistico, ma ci sono state tante fasi che ho vissuto. Se guardo indietro vedo tanti momenti belli e meravigliosi, ma anche tanta fatica. È stato come ricominciare spesso qualcosa. Ho iniziato da bambino, a otto anni, e sono arrivato a dei risultati importanti come “Io speravo che me la cavo” con Lina Wertmüller. Prima che uscisse il film ero già sul set di “Ci hai rotto papà”, con Castellano e Pipolo, e nello stesso periodo stavo girando “Amico Mio”, che mi ha dato una popolarità incredibile ed è stata una delle fiction più seguite di sempre.
Poi cosa è successo?
Poi sono diventato adolescente e ovviamente non ero più il bambino spontaneo che recitava, ma ero un ragazzo che comprendeva meglio cosa si facesse su un set, ho imparato che quello di attore è un lavoro ed esistono delle tecniche per ottenere ciò che prima facevo con maggiore istintività. Ho iniziato a studiare per fare un nuovo percorso e sono arrivati altri risultati, come le serie tv, gli anni a teatro e “Rosa Funzeca” con cui sono andato anche al Festival di Venezia, fino a cambiare nuovamente a diciotto/vent’anni e a ricominciare. Tutto ciò che mi è accaduto fa sì che oggi mi senta un uomo e un attore molto centrato e allo stesso tempo credo di aver faticato tanto. Tornando alla domanda precedente, credo che cambi il modo in cui si riesce a trovare un equilibrio in un lavoro in cui, per la sua ricerca, potrebbe essere necessaria una vita. Mi sento sereno, felice e grato di avere ottenuto quello che ho. Quando penso che io sia un ex enfant prodige e a quanti siano riusciti a fare l’attore mi rendo conto che sono pochissimi e che non è semplice. Perché si cambia, si cresce, ci si trasforma dal punto di vista emotivo, umano e fisico – attraversando tante fasi – ed è complicato confermarsi nei vari periodi della vita. Esserci riuscito mi rende grato e soddisfatto.
Sappiamo che tua figlia Margherita ha deciso di seguire le tue orme…
Sì, ha intrapreso caparbiamente questo percorso e questo lavoro. Ha iniziato il terzo film da protagonista, presto uscirà una serie su Sky e adesso è su un set importantissimo di cui non posso parlare. Ha fatto, inoltre, “E se mio padre” con Claudia Gerini e Dino Abbrescia e “Mina Settembre”. La osservo e provo a darle dei consigli che ho sempre ritenuto utili per accorciare i tempi, per comprendere meglio determinati aspetti e avere qualche delusione in meno.
Quali sono i consigli che cerchi di darle?
Le dico continuamente che è un lavoro in cui sono più i ‘no’ che i ‘sì’, che ho capito sulla mia pelle. Sono felicissimo quando guardo alle spalle il mio percorso e lo rifarei altre mille volte. Non ho ricordi della mia vita precedente prima che facessi questo mestiere e credo sia abbastanza strano. Ma, guardando indietro, capisco che non è stato tutto rose e fiori e cerco di spiegarle cosa comporti il mestiere da attore.
È oggettivo che anche da bambino avessi un dono naturale nel recitare, eri molto credibile e vero nell’interpretazione…
Quando ti rivedi, dopo tanti anni, nei primi lavori che giri di solito non hai dei ricordi nitidi di quell’esperienza. È come se non ti appartenesse e riesci ad avere un’oggettività rispetto a ciò che vedi. A volte mi impressiona quanto fossi credibile e vero in quegli anni, lo dico con oggettività e non lo direi mai per un film che ho girato di recente. Ultimamente abbiamo fatto “Noi ce la siamo cavata”, il docu-film su “Io speravo che me la cavo” di cui sono autore, ideatore, protagonista ed è un mio viaggio alla ricerca dei bambini che hanno condiviso con me quel set. È stata come una seduta di analisi perché è stata un’esperienza che ha indirizzato la mia vita e ho rivissuto quell’esperienza attraverso i racconti di tutti.
C’è stato un qualcosa che è riaffiorato e che ti ha sorpreso particolarmente?
Tra i materiali che abbiamo trovato, c’era un backstage inedito in cui c’erano delle interviste fatte ai bambini, tra cui una mia. Quando mi si chiese se mi piacesse l’esperienza che stavo facendo, risposi: “Sì, perché mi fa sentire più di quello che sono” ed è stata una risposta che mi ha sorpreso tantissimo.
Ci sono dei parallelismi che accomunano la tua carriera dei tuoi esordi a quella di tua figlia Margherita?
Sì, rivedo quella determinazione che avevo io e quel dono di cui parlavamo in precedenza. Ha iniziato per caso, mi accompagnava per dei festival ed è stata notata da un produttore che mi disse che Mohsen Makhmalbaf – il regista di “Viaggio a Kandahar” e tantissimi altri film – stava cercando una bambina per girare un film in Italia. Mohsen la incontrò e la scelse per il suo film. Inizialmente, ero un po’ titubante sul farle portare avanti una carriera da bambina attrice, anche perché sapevo cosa comportasse.
Cosa ti ha fatto cambiare idea?
Un giorno mi disse: “Papà, non capisco perché tu non voglia che io faccia questa cosa che tu hai fatto da bambino, dal momento che comprendi quanto io possa desiderarlo”. Questa sua caparbietà, che ho rivisto nel bambino che ero io, mi ha imbarazzato, mortificato e mi ha fatto dire: “Hai ragione, hai fatto un film e chiederò a un’agenzia di seguirti”. Ha avuto ragione lei perché ha fatto i primi due provini ed è stata scelta come protagonista. Da lì non si è più fermata. Ha quel dono che avevo io a quei tempi, ma non basta perché il talento si deve anche alimentare, l’ho capito sulla mia pelle e sto cercando di farlo comprendere anche a lei.
Ti piacerebbe fare un film con Margherita come ha fatto Francesco Di Leva con Mario in “Nottefonda”?
Sicuramente è un’esperienza che mi piacerebbe fare, credo che possa verificarsi ma ritengo che le cose non accadano mai per caso e, semmai dovesse succedere, dobbiamo aspettare che ci sia il progetto e il momento giusto e non farlo soltanto perché ci piacerebbe realizzarlo. Sarebbe uno dei progetti a cui penserei maggiormente per capire se sia il caso o no perché potrebbe essere una cosa meravigliosa ma anche qualcosa fine a sé stessa e, se fosse così, mi dispiacerebbe. Credo che “Nottefonda” sia un film compiuto perché il rapporto tra Francesco e Mario ha aggiunto al film qualcosa in più ed è ciò che cercherei nel progetto che potrei condividere con mia figlia.
“La vita da grandi”, invece, che esperienza è stata per te?
“La vita da grandi” e “Nottefonda” sono stati girati nello stesso periodo e sono stato impegnato contemporaneamente in entrambi i set. Questo doppio impegno è stato interessantissimo perché mi ha dato la possibilità di lavorare su due personaggi totalmente diversi, in due film dal sapore completamente differente ma che ho amato profondamente entrambi.
Oltre alla parte artistica, ti ha permesso di affrontare una tematica importante come la neurodivergenza…
Sì. “La vita da grandi” è stata un’esperienza umana incredibile, perché è stato un viaggio di scoperta. Ugo riflette il percorso degli spettatori, che spesso si trovano a non sapere come relazionarsi con le persone neurodivergenti e che etichettano anche in maniera superficiale, utilizzando il termine “diversità”. Invece, lavorare con attori realmente neurodivergenti è stata una grande esperienza e una grande possibilità di apprendimento reciproco, perché tutti noi abbiamo dovuto relazionarci con una certa sensibilità e apertura, arricchendo la nostra prospettiva di ascolto e riflettendo anche su come siano condizioni che portano a rivalutare i tuoi tempi. È stato un progetto che ci ha reso tutti più consapevoli e ci ha unito molto.
Com’è stato essere diretto da Greta Scarano?
Greta è stata una grandissima scoperta come regista, ama gli attori, è stata capace di dirigerci e di accompagnarci lungo questo film e questo percorso con una grande delicatezza che caratterizza il film. Sono molto felice di aver preso parte a questo progetto, perché è giusto evidenziare come il film rappresenti l’autismo in una maniera autentica, senza cadere mai nella retorica e non era facile riuscirci. “La vita da grandi” possiede un romanticismo raro.
Com’è la vita da grandi, secondo te?
La vita da grandi comporta l’accettare con serenità la possibilità del fallimento e fallire non è la fine. Come dice Omar: “Se fallisco ci riproverò fino a quando non mi riuscirà meglio e come piace a me”. Significa vivere questa possibilità con serenità, che non vuol dire con passiva accettazione. Si è veramente grandi quando si è liberi di inseguire ciò che si sogna, di comportarsi come si vuole – ovviamente avendo educazione e rispetto del contesto in cui ci si trova – e di essere noi stessi. È quello che provo a insegnare ai miei figli, è una conquista che con gli anni ho fatto e su cui provo a lavorare costantemente.
Se fossi un giornalista che domanda faresti a Adriano?
Gli domanderei se è felice e risponderei che in questo momento lo sono e sono contento di esserlo.
Di Francesco Sciortino