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Mar. Giu 3rd, 2025

Intervista a Corrado Fortuna: “Essere diretto da Mario Martone in ‘Fuori’ è stato un grande privilegio. Il red carpet di Cannes mi ha regalato emozioni inaspettate” L’attore, attualmente al cinema in “Fuori” di Mario Martone, racconta su “La voce dello schermo” le sensazioni provate a Cannes, l’esordio con Virzì, il suo incredibile rapporto con Franco Battiato e altre curiosità che riguardano la propria carriera.

Mag 31, 2025
Foto di Fausto Brigantino

Corrado Fortuna negli anni ci ha regalato grandissime interpretazioni e si è fatto apprezzare da grandi registi come Paolo e Carlo Virzì, Mario Martone, Roberto Faenza, Giuseppe Tornatore e Franco Battiato. Il suo percorso artistico non si limita soltanto alla recitazione, ma riguarda anche la regia e la scrittura. Attualmente lo stiamo vedendo al cinema in “Fuori”, di Mario Martone, in cui interpreta Angelo Pellegrino, e nella serie NetflixMaschi Veri”. Presto riprenderà il ruolo di Manfredi Monterreale nella seconda stagione di “Vanina – Un vicequestore a Catania” e sarà nel nuovo film di Francesco Lagi.
Abbiamo avuto il piacere e l’onore di intervistare proprio Corrado, che ci ha regalato un’interessante chiacchierata partendo ovviamente da “Fuori”. L’attore palermitano ci ha parlato delle emozioni vissute a Cannes, in cui è riuscito a lanciare un bel segnale – mostrando al mondo la spilla della Palestina – e ci ha raccontato dell’incontro con Pellegrino, che l’ha aiutato a comprendere meglio l’amore totalizzante provato dal marito nei confronti di Goliarda Sapienza. Oltre a parlarci dell’intensa esperienza in “Fuori” e di quanto per un attore sia stimolante essere diretto da un regista come Martone, Corrado ha ricordato il film che l’ha lanciato – “My name is Tanino” di Paolo Virzì – e il particolare rapporto che aveva con Franco Battiato, nato sul set di “Perdutoamor”. L’attore ci ha confidato, infatti, quanto il profondo rispetto nei confronti del cantautore, compositore e regista italiano abbia condizionato la nascita di una profonda amicizia tra i due. Questo e altro nella nostra intervista a Corrado Fortuna. A voi…

Foto di: Fausto Brigantino

Salve Corrado, benvenuto su “La voce dello schermo”. Partiamo dalle emozioni di Cannes. Con che stato d’animo sei tornato?

Salve a tutti, grazie. Avete presente Cenerentola, che non sa che a un certo punto la sua carrozza si trasformerà in zucca? Un po’ così. Non sono mai stato neanche troppo affezionato all’idea di fare i red carpet, ma lì, davanti al Palais des Festivals et des Congrès, ho cominciato a guardarmi intorno come se volessi riempirmi gli occhi di ricordi e di cercare di portarne il più possibile con me. È stato molto emozionante. Sono molto grato a Mario (Martone ndr) e a Ippolita Di Majo per avermi scelto per questo film e per avermi portato a Cannes. È stato un sogno inaspettato.

L’immagine con la spilla della Palestina ha fatto il giro del mondo…

Sì, con mia moglie avevamo comprato queste spillette un mese fa, pensando di metterla sul red carpet. L’emozione del momento era tale che avevo le spillette in tasca, ma quando sono sceso dalla macchina ho dimenticato di metterla, come avevo preventivato. Alla fine del tappeto rosso, durante l’ultimo photocall, mi sono ricordato di averla nella tasca, nel portapillole e l’ho mostrata. Questa casualità ha fatto sì che la spilletta si vedesse di più rispetto a come si sarebbe notata indossata e ha fatto in modo che si portasse ancora di più l’attenzione verso quei territori.

Perché, secondo te, argomenti che dovrebbero essere oggettivi, come la guerra, diventano oggetto di discussione?

Ci troviamo in un momento in cui l’empatia è parecchio superata dal cinismo, quello che accade lontano da noi sembri non toccarci più come una volta e non ci sono più tante parole per descrivere l’orrore che sta accadendo da decenni a Gaza. Ma credo ci sia qualche parola da spendere riguardo il silenzio dei governi che c’è attorno a questa situazione e penso sia quasi più tragico dell’orrore in sé, perché sembra non appartenerci e non riguardarci. Io non riesco più a dormirci la notte e, oltre a me, tanti. Non sono le persone che sono distanti da ciò che accade a Gaza, ma gli stati, i governi e le grandi economie.

Tornando a “Fuori”, di Mario Martone, che esperienza è stata per te?

Fare un film di Mario è per un attore come andare al luna park per un bambino. In set del genere si girano poche scene al giorno e con un’attenzione straordinaria dedicata a esse. Racconto un aneddoto: stavamo per girare una scena in cui io e Valeria (Golino ndr) parlavamo de “L’arte della gioia”, tutta la troupe era pronta ad aspettare l’ok di Mario. A un certo punto, ci chiamò, prendendo il libro e dicendoci: “Valeria e Corrado prima di andare in scena venite, che vorrei leggervi qualche pagina del romanzo di Angelo Pellegrino”. Ci tenne venti minuti al centro del set. Credo sia questa l’attenzione al lavoro che ho trovato su questo film ed è un vero privilegio. Quando si gira tanta televisione, ci si disabitua a tempi più lunghi, calmi e alla concentrazione del cinema d’autore e, in particolare, di quello di Mario Martone.

Hai avuto modo di incontrare anche Angelo Pellegrino, che interpreti nel film…

Sì, avevo letto tutti i suoi libri, oltre a quelli di Goliarda Sapienza, ed è stato molto utile conoscerlo e incontrarlo. Non lo faccio spesso, nel momento in cui devo interpretare personaggi in vita, perché non cerco mai la via dell’imitazione, ma provo a portare in scena me stesso, quanto più possibile, influenzato e condizionato da sentimenti e sensazioni che immagino essere quelli del personaggio.

Cosa hai scoperto di lui?

Conoscerlo è stato molto interessante perché ci assomigliamo, abbiamo un’anima simile, siamo due palermitani atipici: siamo entrambi romantici, scrittori e attori. Non ha amato molto fare il cinema, lo ha fatto in un periodo in cui bastava fare qualsiasi tipo di film per guadagnare tanto e lui stesso ammette che si è sempre ritenuto più filologo che attore. Io sono innamorato del mio mestiere e non farei altro, ma ho avuto nella mia carriera anche dei momenti di snobismo nei confronti del mio stesso lavoro e mi sono ritrovato a scoprire dei punti in comune con Angelo.

Riguardo il suo rapporto con Goliarda, cosa ti ha colpito maggiormente?

Quando parla di Goliarda continua ad avere gli occhi innamorati. Abbiamo fatto tante chiacchierate a riguardo, l’ultima a Cannes mi ha colpito particolarmente e mi ha intenerito. Gli dissi: “Angelo, hai visto? Adesso la tua missione è compiuta: hai dedicato una vita intera a cercare di far scoprire Goliarda Sapienza al mondo, ci sei riuscito!” e mi ha risposto: “Sì, infatti adesso che cosa farò?”. Questa risposta mi ha fatto comprendere quanto sia stato totalizzante questo impegno da parte sua per tutta la vita. Allora mi chiedo se mia moglie, quando morirò, sarà in grado di portare avanti quello che ho fatto io e non credo nemmeno che abbia voglia di farlo! (ride ndr)

Com’è stato lavorare con Valeria Golino?

Innamorarsi artisticamente di Valeria non è difficile. È un angelo, un’attrice straordinaria, siamo amici da molto tempo ma non avevamo mai recitato insieme. È stato incredibile sin dal primo minuto del primo provino, perché sembrava che avessimo fatto già dieci film insieme. “Fuori” è meraviglioso, estremamente femminile ed è giusto che le tre protagoniste si prendano tutto lo spazio che meritano. Goliarda non si definiva femminista, ma diceva: “Il mio partito è sempre stato il partito delle donne”. Credo che Mario abbia reso gloria, onore e memoria a lei.

Hai parlato di ‘snobismo’ riguardo il mestiere dell’attore. In che senso?

In quei momenti in cui lavori meno, ci sono attimi in cui ami e odi questo mestiere perché ti manca recitare. Non abbiamo un’industria cinematografica reale. In questi giorni si parla tanto del cosiddetto ‘circolino’. In realtà, non è che in Italia ci sia un circolino. Manca una vera e propria industria stratificata che permetta di avere dei livelli di cinema indipendente, ad esempio, in cui gli altri attori possano lavorare e migliorarsi, un po’ come accade in America. Per recitare bene si ha bisogno di stare davanti alla macchina da presa e sentirla e lo si impara soltanto lavorando. È un lavoro di passione, in cui amore e odio si trovano a volte a convivere tra di loro.

Come pensi di essere cambiato rispetto ai tuoi esordi in “My Name is Tanino” di Virzì?

Credo che il cambiamento vada di pari passo sia come attore che come uomo. Il lavoro dell’attore invecchia e muta con te e si nutre del tuo cambiamento, dei tuoi sentimenti, delle paure, delle angosce, dei sogni, dei tuoi desideri e delle tue felicità. Se vedo Tanino ritrovo un attore selvaggio, meraviglioso che non ci sarà mai più, che doveva inventarsi un modo per fare le cose, seppur guidato come una marionetta da Paolo Virzì che non mi mollava un secondo nel dirigermi. Quell’aspetto selvatico mi piace tantissimo e lo ritrovo in molti attori giovani, specialmente se non hanno studiato. Se si ha talento ci sono tanti modi di affinarlo ed è importante studiare proprio per questo.

E adesso?

Adesso conosco il mio lavoro molto bene e un po’ rimpiango quella selvatichezza iniziale, ma sono contento di avere sviluppato – attraverso il mio percorso – una cassetta degli attrezzi piena di strumenti che mi permetta di aggiustare qualunque meccanismo si inceppi. Mi sento molto sicuro sul set, tranquillo, rilassato e recitare è la cosa che so fare meglio e che mi fa stare bene. L’ho fatto per tanto tempo e sono cambiato e migliorato.  Nonostante abbia girato anche film brutti, non riusciti e realizzati più per convenienza che per bisogno creativo, sono molto grato di aver fatto quei film perché ho imparato tante cose. Mi hanno permesso di allenarmi tantissimo e di stare sul set tutti i giorni a conoscere questa macchina gigante che è il cinema.

Che rapporto hai ora con la recitazione?

È bellissimo, sono innamorato del mio mestiere e godo a stare davanti alla macchina da presa. Prima ero terrorizzato durante i provini, oggi mi piace farli, ci vado rilassato e amo mettermi alla prova. La sensazione mentre li fai è bellissima perché in quei cinque/sette minuti conosci il regista che hai di fronte, è un momento di incontro tra due persone e devi prenderti ciò che è tuo. E forse è proprio lì il lavoro dell’attore, in quel momento.

Come andò l’incontro con Paolo Virzì per “My name is Tanino”?

L’ho incontrato per caso. Ai tempi, ero – e lo sono ancora oggi – molto amico di Carlo Virzì, il fratello. Mi disse: “Guarda, sembra che mio fratello abbia scritto un film su di te. Perché non lo incontri?”. Si trattava di “My name is Tanino”, feci il provino ed è andata bene. Ma mi sono dovuto sudare anche quello. Tutto quello che mi sono preso nella vita, me lo sono guadagnato, facendo i provini ed è molto raro che qualcuno offra un film senza farne uno. Dopo arrivò Battiato, con lui ad esempio non feci il provino: mi scelse guardando una fotografia di Repubblica che parlava di “My name is Tanino”. Ma Battiato era fuori dall’ordinario.

In che modo Battiato era fuori dall’ordinario?

Racconto un episodio per rendere l’idea. Anni dopo “Perdutoamor”, girai un documentario che si chiama “La linea della palma” sulle elezioni regionali del 2013 e ho volevo intervistare Franco, che era stato nominato assessore regionale alla cultura. Non aveva mai voluto rilasciare un’intervista a nessuno. Mi disse subito di sì, lo andai a trovare a casa sua, a Milo, intervistandolo e avendolo in qualche modo anche in un mio film. Quando andai a montaggio, utilizzai il suo singolo di quel momento, “Inneres Auge”, e gli mandai quanto girato per mostrarglielo. Gli comunicai che lo avrei tolto in un secondo momento, perché non potevo inserirlo a causa dei costi dei diritti elevati, dal momento che era appena uscito. Mi rispose: “No, ma che togli! Te lo regalo!”.

A proposito di “Perdutoamor”, diretto da lui, che ricordi hai di questa esperienza?

Per descriverla ci vorrebbe un’altra intervista. Essere diretto da Battiato è stata una delle esperienze più incredibili della mia vita e di quelle che mi sono successe ogni tanto. Era molto simpatico, oltre che ascetico come lo si immagina. Non era noioso, era molto spiritoso, un grande raccontatore di aneddoti, di barzellette ed era sempre con la battuta pronta. Non siamo mai diventati amici perché per me era una sorta di divinità.

Cosa ha rappresentato lui per te?

Quando sono stato scelto per fare questo film, sono quasi cascato dalla sedia. Sono un palermitano del ’78, vivendo gli anni ’90 a Palermo, noi adolescenti dovevamo attaccarci a qualcosa di culturale che ci facesse evadere mentalmente da quel contesto. Battiato era uno di questi. Ero un suo conoscitore folle quando sono stato scelto per il suo film. È impossibile descriverlo in poche parole e ancora oggi mi commuovo quando parlo di lui. Il fatto che non siamo diventati amici è da una parte un vanto, perché mi ha permesso di avere un rapporto con lui ma di continuarlo a considerare qualcosa di irraggiungibile; ma dall’altra un rimpianto, perché lui me l’ha offerta la sua amicizia, ma avevo un timore referenziale nei suoi confronti.

Perché?

In parte, non volevo essere un questuante alla corte di Franco. Ma soprattutto, avevo il desiderio che lui restasse per me il mito che è sempre stato in adolescenza e lo potesse continuare a essere ancora dopo aver fatto il protagonista del suo film. Così è stato e ne sono contento. L’ho avuto in un mio documentario, ho visto mille dei suoi concerti, ci ho cenato insieme cento volte. L’ho sentito parlare di tantissimi temi, dall’astrologia alla politica, dalla musica al cinema e alla letteratura. Ho avuto un privilegio abnorme, cosa avrei potuto desiderare di più? L’amicizia forse era troppo.

Stai girando la seconda stagione di “Vanina”. Cosa ami di questo set?

È la mia casa e la mia famiglia. Questa troupe, questo cast e tutte le persone all’interno del progetto sono un pezzo di cuore. La gioia di andare a lavorare su “Vanina” è qualcosa di raro e irrefrenabile. Era già così durante la prima stagione. Nella seconda, con le stesse persone dentro, è stupendo. Secondo me, la serie è molto bella, ha la dignità del giallo italiano ed è una versione femminile de “Il commissario Montalbano”. Sono molto contento di fare parte di questo progetto.

In questi giorni ti stiamo vedendo anche in “Maschi Veri”…

Sì, ho girato tutte le scene in due giorni perché contemporaneamente ero sul set de “Il ragazzo dai pantaloni rosa”. Sono molto amico di Matteo Oleotto, regista della serie e con il quale avevo già lavorato. Sono corso quando mi ha chiesto di fare questo cameo e ne sono molto contento.

“Il ragazzo dai pantaloni rosa”, invece, è stato un film che ha avuto un grande successo e ha lanciato un messaggio molto significativo…

Sì, è stato un film importantissimo dello scorso anno e sono orgoglioso di averne fatto parte. È stato un po’ faticoso dal punto di vista psicologico, ma lavorare su questo progetto è stato molto bello. Claudia (Pandolfi ndr) è una sorella di anima, siamo amici da una vita e ci vogliamo molto bene. Lavorare con lei è stato facile, nonostante sia stato psicologicamente il film più difficile che abbia mai girato, probabilmente perché – come il mio personaggio – sono anche io un padre.

Pensi che le serie tv siano cambiate qualitativamente rispetto al passato?

Certamente. Ambisco a fare serie tv di un certo livello e, nonostante sia un cinefilo, la tv è quella che guardo maggiormente anche io ormai. Ci sono serie di una bellezza, completezza e complessità che il cinema difficilmente può raggiungere in poche ore. Credo sia un aspetto molto positivo, c’è uno scambio molto più vivo tra cinema e televisione e queste due strade si incontrano maggiormente rispetto a prima.

Dove ti vedremo prossimamente?

A breve iniziamo le riprese del nuovo film diretto da Francesco Lagi ed è una commedia romantica molto bella.

Questo portale si intitola “La voce dello schermo”. Cosa significa per te ascoltare la voce dello schermo?

Quando leggo e guardo un film provo emozioni simili. La voce dello schermo per me è qualcosa di cui ho bisogno e che mi porta via dalla mia realtà. Purtroppo, non accade con ogni film e non capita di sentirla tutte le volte. Ma, quando si sente, non ti importa di ciò che ti sta attorno, hai soltanto la voce dello schermo e basta. È come un’ipnosi.

 

Di Francesco Sciortino

By lavocedelloschermo

Francesco Sciortino, giornalista pubblicista dal 2014, appassionato di serie tv, cinema e doppiaggio. In passato cofondatore della testata online “Ed è subito serial”.

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