Irene Maiorino ci ha regalato – nei panni di Lila ne ‘L’amica Geniale – storia della bambina perduta’ – un’interpretazione profonda, indimenticabile, potente e in grado di lasciare il segno non soltanto in Italia, ma anche in tutto il mondo. Non a caso è arrivata anche la candidatura ai Nastri D’Argento – Grandi Serie – come migliore attrice protagonista, che dimostra quanto prove del genere non passino inosservate sia nell’immaginario collettivo sia agli occhi della critica.
Con grande piacere abbiamo intervistato, su “La voce dello schermo”, proprio Irene, che ci ha parlato della potenza che un personaggio come quello di Lila racchiude, di quanto un’esperienza come quella ne “L’amica Geniale” le abbia dato modo di comunicare, non soltanto con un pubblico italiano ma anche internazionale, e soprattutto di essere una vera e propria fonte di ispirazione nella vita di tante persone. Una ricca chiacchierata tra “L’amica Geniale”, la scena dell’abbraccio a Lenù e il doversi separare da Lila; il suo legame con Napoli e l’impronta artistica che una città ricca del genere può lasciare; il legame con il palcoscenico; i ‘mille culure’ che la rappresentano e le altre esperienze che hanno caratterizzato la carriera di Irene, da “1994” a “Gomorra”. A voi…

Ti abbiamo apprezzata durante l’ultima stagione de “L’amica geniale” nei panni di Lila. È un personaggio molto complesso, che si mostra forte davanti agli altri, nascondendo le proprie fragilità. Com’è stato restituire questa maschera?
La dualità di Lila è una delle grandi forze che possiede. Mi sono concentrata molto sulla parte più fragile, per capire come nasconderla successivamente. Sarebbe più immediato pensare che il lavoro più ovvio da fare sia l’inverso. Tuttavia, per fare funzionare il personaggio, bisognava trovare una ferita profondissima in lei, che si concretizza con la scomparsa della bambina e con tutto il dolore che attraversa alla fine del romanzo e della serie.
Quanto è attuale un personaggio del genere?
È sempre attuale, senza tempo, così come lo è anche la storia. Lila muove tantissime riflessioni su varie epoche, specialmente sul femminile ma non solo. Quando parliamo di femminile è fondamentale comprendere che anche il maschile debba interessarsi e capire che – riguardo la violenza sulle donne ad esempio – ci sono dei grandi limiti culturali e siamo figli di questa cultura dominante maschile. Lei ne è un esempio, perché si smarca, pagandone un po’ il prezzo, perché la vita non le restituisce nulla con facilità.
La serie ha conquistato il pubblico italiano e mondiale. Cosa pensi abbia amato la gente di Lila?
È un personaggio esemplare, su ogni aspetto, ed è il motivo per cui mi scrivono donne di tutte le età e provenienti da tutte le parti del mondo, perché c’è un riconoscersi a prescindere dal luogo di provenienza. Ho ricevuto messaggi dall’India o dal Messico, per esempio, nonostante racconti un certo tipo di donna napoletana. Le donne si ritrovano, o per un vissuto o per un’aspirazione, a pensare: “mi è successa quella cosa, avrei voluto avere quella forza” oppure: “ho sentito quel dolore e mi ha fatto pensare a…”.
Una scena significativa è l’incontro con la maestra, durante le stagioni precedenti al tuo ingresso nella serie, che pone diversi interrogativi sulla realizzazione personale. Cosa significa per te realizzarsi?
Ci sto riflettendo da qualche anno e molto di più adesso, perché credo di trovarmi in un momento sia privato sia di carriera molto importante. Per me è fondamentale riuscire a connettermi con quanto accade nella vita e nel mondo senza soffrirne. Tutto ciò che sta accadendo in Palestina è per me un assillo da mesi. Credo che la mia felicità e la mia realizzazione non valgano da sole, ma hanno un senso se condivise. Per questo motivo sono lusingata e grata di avere avuto la possibilità di approcciarmi a un personaggio come Lila, così ampio, dentro cui si rispecchiano tante persone, con una storia così forte che mi ha permesso di andare fino in America per parlarne e incontrando tante persone. Il fatto che il mio lavoro e le storie che racconto, attraverso i personaggi interpretati, creino vicinanza e conversazioni è molto importante. Per me la realizzazione avviene sia come essere umano sia come artista ed è importante che la vita privata e professionale dialoghino.
Secondo te, un personaggio del genere, così bello, così complesso, che arriva a tanta gente, può portare un’attrice a porsi la domanda: “troverò un altro personaggio così forte?” nel momento in cui si smette di interpretarlo?
No, mi sento totalmente libera e, come accade nei grandi amori, bisogna essere disposti a lasciarla andare. Non ho paura di allontanarmi da lei o di perderla, l’ho interiorizzata e so bene di essere capace di lavorare su altri progetti, come sto facendo. Poi, come succede anche nella vita, non è detto che si incontri il vero amore dopo, se capita sei fortunato. Un conto è farsi compagnia e avere delle relazioni e un conto trovare il grande amore che ti sposti. Lila mi ha spostato, mi ha fatto donna e allo stesso modo mi dedicherò con grande passione ai prossimi progetti. Lei è stata una nave maestra e un oceano e così rimarrà.
In che senso Lila ti ha fatto donna?
Ho fatto diversi anni di provini, ma è arrivata in un momento della mia vita diverso, più adulto e mi ha aiutato. Mi sono completamente dedicata a lei. Ho vissuto gli ultimi due anni, uno di preparazione e uno di girato, in cui ho messo la mia vita nelle mani di questo personaggio e dandole la priorità. È stato un lavoro immersivo e non rimaneva soltanto sul set. Ovviamente vivevo la mia vita, ma c’erano delle priorità oggettive, nelle scelte che facevo, per stare all’interno di questo sogno. Per quanto sia stato faticoso, ero dentro qualcosa di gigantesco e ho provato a credere a questa nuova realtà.

In che modo interpretarla è stato così travolgente?
Ho vissuto una mimesi con lei, ho assorbito il suo modo di trattenere e di mostrare un po’ il broncio. Ultimamente mi fanno i complimenti per il mio sorriso proprio perché le persone erano abituate a vedermi riprodurre quelle espressioni del viso. Ho vissuto anche un cambiamento fisico con lei, come abbiamo notato attraverso la trasformazione nel finale, in cui si vede tutta la mia Lila, che è slegata da qualsiasi racconto delle precedenti serie perché è un momento tutto suo e in cui non l’abbiamo mai vista così. Per arrivare a quello ho dovuto fare un lavoro di introspezione molto forte e la mia vita si è un po’ spostata, ma sono rimaste la sua storia, la sua realizzazione e le sue lotte. Se già avevo dei pensieri riguardo la donna e l’attrice che voglio essere, lei mi ci ha messo di fronte ed è stato il mio specchio.
Tra l’ultimo ciak e il distacco da Lila. Cosa ricordi di quel momento?
Ricordo l’applauso, il momento di saluto ma era difficile per me credere che stesse finendo e ne ero quasi inconsapevole. Il distacco è stato netto, ho lasciato Napoli, sono tornata a Roma e ci ho messo un po’ per allontanarmi da un personaggio così.
Riguardo l’iconica scena dell’abbraccio con Lenù, invece?
È stato un momento quasi istintivo e naturale che ha dato un senso di chiusura del cerchio. Quando stai girando non ti rendi conto di tutto, ma nel momento in cui l’ho rivista mi sono particolarmente emozionata, perché era bello anche l’abbraccio dei colori, di queste due donne così diverse ma complementari e che diventano un’unica entità. Era una scena molto forte, ci si perdeva, quasi non c’erano i visi, un po’ come lo Yin e lo Yang. È stato bellissimo.

La serie è uscita prima in America, com’è stato assistere al clamore che proveniva da oltre Oceano?
È stato difficile gestire l’onda dei fan, quando mi hanno scritto, perché ho dovuto mantenere il controllo per non rovinare la visione al pubblico italiano. Dopo la messa in onda da noi, invece, mi sono un po’ lasciata andare e me la sono goduta.
Qual è, secondo te, il concetto che identifica meglio Lila?
Il riscatto. Con tutte le qualità che aveva, avrebbe potuto benissimo andarsene. Ma la sua storia personale racconta che, attraverso la conoscenza e la curiosità, ti puoi smarcare e ci può essere un’emancipazione della tua condizione sociale. Era la brillante, l’arguta, non è andata a scuola, ma insegnava il latino a Elena, che al contrario aveva le possibilità. Ha anche reagito al matrimonio, la prima notte di nozze ha subìto una violenza e non ha più voluto proseguire, ma ha preferito cadere in miseria. Ha fatto come voleva, ma partendo da un contesto popolare e povero, che era quello della fine della Seconda Guerra Mondiale.
Che effetto fa la candidatura ai Nastri D’Argento come migliore attrice protagonista?
È stato bellissimo perché questo lavoro non si fa soltanto per essere riconosciuti, perché potrebbe anche destabilizzarti. Il fatto che mi sia tanto dedicata a lei, a testa bassa e per anni, e che poi qualcuno lo riconosca credo sia quello che lei si meriti e che questo impegno meritava. È un momento molto bello, sano e giusto perché frutto della dedizione con cui mi avvicino a ciò che faccio. Lo dedico a tutte le persone che mi hanno supportato. Credo che l’approccio così totalizzante a un personaggio del genere sia necessario, dovuto e non ci sia altra possibilità.
Chi è Irene artisticamente?
È una donna che, attraverso il suo lavoro e le storie che cerca di raccontare, prova a portare quanta più vicinanza e umanità possibile. Anche storie storte, sbagliate, di violenza e difficili da raccontare permettono di spaziare nella diversità del mondo ed è per questo che faccio questo mestiere: perché mi gratifica vedere che le persone si riconoscono in queste storie, spesso difficili, arzigogolate e complesse, com’è poi la vita. È come se fossero un eco alla vita.
Hai sottolineato quanto sia importante anche rimanere connessi con il mondo che ci circonda ed essere sensibili a tematiche importanti. Secondo te, l’arte deve lanciare dei messaggi?
Assolutamente sì. L’arte offre delle possibilità. Condivido che noi artisti, quando si verificano situazioni molto gravi come quella in Palestina, abbiamo il dovere di usare la voce per farci sentire e non dobbiamo avere paura di spendere due parole a riguardo o di raccontare storie che lascino dei segnali, com’è accaduto con Paola Cortellesi in “C’è ancora domani” e in altre situazioni analoghe del cinema italiano. Sono contenta quando vedo figure femminili protagoniste oppure quando è presente, com’è accaduto ne “L’arte della gioia”, un femminile perturbante che finalmente viene raccontato e non edulcorato.
Quale contributo pensi possano dare i film?
Un film o un libro ti possono cambiare la vita o aiutare ed è importante far parte di lavori che possano essere da stimolo per le persone. In America ho incontrato una ragazza messicana, in lacrime, che mi ha detto: “Non c’entro niente con questa storia, ma la determinazione di Lila mi ha così tanto ispirato da essere venuta in America”, parlandomi anche delle proprie paure riguardanti l’immigrazione. Anche io, tante volte, sono uscita dal cinema – da spettatrice – con la testa completamente diversa e ho cominciato a farmi domande sui miei desideri e sulle mie paure.
Nella tua carriera non c’è soltanto “L’amica geniale”. Ci sono altri ruoli che hanno rappresentato una sfida particolare per te? Quali?
Sicuramente mi ha divertito molto interpretare Alessandra Mussolini in “1994”. Innanzitutto, era molto diversa da me, ho dovuto fare un lavoro sulla mia bellezza che non sempre porto come primo valore. Inoltre, è un personaggio che incarna un credo politico opposto al mio e anche questa è stata una sfida. Porta un peso diverso da Lila, mi ha potuto offrire un approccio molto più leggero ma sempre molto affinato. Riprodurre il suo modo di porsi e di parlare, così convinto e sfacciato, è stata un’esperienza particolare. Infine, mi ha divertito essere bionda per un periodo. Ma sono tanti i lavori che ricordo con piacere.
Di Teresa in “Gomorra” cosa ricordi, invece?
Mi ha permesso di raccontare una madre di famiglia, che esplorava uno spaccato femminile positivo in un contesto in cui anche le donne, almeno fino alla seconda stagione, erano per lo più boss e facevano parte della camorra, mentre Teresa si discostava. È stato bello interpretare un certo tipo di donna che esiste, più semplice, che crede veramente ai sentimenti ma che poi la vita punisce perché è vicina alla malavita.
Come contribuisce una città come Napoli all’identità artistica di un’attrice?
Le città possono contribuire molto. Napoli non ha nulla da invidiare a nessun’altra città. Qui nasce la smorfia, c’è una tradizione artistica antichissima e il teatro tutt’oggi, per quanto a livello di sovvenzioni sia un po’ abbandonato in tutta Italia, a Napoli resiste. Un aspetto importante di questa città è che ti permette di respirare il teatro ovunque, la gente l’ha nel DNA, nel modo di parlare e nella musicalità. L’impronta di una città può essere fortissima ed è importante che poi venga conservata. È fondamentale che si continui a studiare la lingua, che si riprenda il dialetto, perché fa parte delle origini e delle radici di un popolo che ha fatto parte di tante culture.
Come vivi invece l’allontanamento dalle origini che l’essere un’attrice ti porta?
Ovviamente, deve essere una possibilità che un artista affronta. Ognuno ha la propria origine ed essere provenienti dalla Campania è un’impronta molto forte e potente. A volte può essere difficile per i giovani smarcarsi, però non è un qualcosa di impossibile. Tuttavia, credo che l’importante sia non rinnegare le proprie origini e non snaturarsi. Penso che la caratteristica più importante di un attore non sia la pulizia del modo di parlare ma l’anima che mette nei personaggi che interpreta. Nel mio percorso ho dovuto allontanarmi per poter dimostrare di essere capace di fare anche altro e mi ha portato a ritornare con più consapevolezza e a poter fare delle scelte.
“Napule è mille culure”, cantava Pino Daniele. Quali pensi siano i colori che più ti rappresentano e perché?
Come Lila, vivo di una grande dualità, sono molto solare ma ho anche bisogno della mia solitudine. Sicuramente il bianco mi ispira tantissimo e lo cerco molto. Sicuramente dentro di me c’è anche il blu e il turchese, che rappresentano il mare e i cieli molto limpidi, rimandano all’acqua e mi fanno pensare alle mie origini. Oggi, aggiungerei anche il verde con qualche sfumatura di porpora, ovvero un colore scuro che rappresenta le mie ombre e che riproduce anche il colore di un bosco, con dei lamponi attorno. Ultimamente amo starmene in natura.
Perché ami il mare d’inverno?
L’ho amato tanto, forse oggi di meno. Sono molto malinconica e ogni tanto ho dei momenti in cui ho bisogno di stare da sola, di sentire cosa mi sta attraversando, di guardarmi indietro e il mare d’inverno lo permette perché possiede un respiro aperto, sei di fronte all’immensità e non c’è quel caos estivo. Sono nata a settembre e la spiaggia svuotata, con le ultime cabine e senza la folla, è un po’ il mio suono. Il mare ti permette di dirgli e di restituire tutto ciò che vuoi perché se lo porta via.
Cosa rappresenta per te il teatro?
Credo non si possa prescindere dal teatro. Attraverso Lila ho lavorato molto anche sulla tragedia greca e ultimamente sto maturando il desiderio di tornare anche sul palco. Rappresenta l’origine, la base e il ritorno. C’è sempre bisogno di tornare allo spettacolo dal vivo e di stare in contatto con il pubblico. Ti fa sentire vivo nel processo creativo ed è fondamentale. Per me è stato l’inizio, ma è sempre la strada maestra sia per com’è scritto – attraverso i suoi personaggi – sia per la possibilità di esplorare, di spaziare, di studiare e di cercare che ti dà. Il lavoro dell’attore è meraviglioso proprio per questo.
Questo portale si intitola “La voce dello schermo”. Cosa significa per te ascoltare la voce dello schermo?
Significa spostare il nostro punto di vista e sentirci rigenerati, come accade a me quando guardo un bel film.
Di Francesco Sciortino