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Intervista a Dario Aita: “Rivivere la giovinezza di Sandrino in ‘Parthenope’ è stato un bel regalo. Mi piacerebbe cimentarmi nella regia” L’attore si racconta su “La voce dello schermo” parlando del film attualmente nelle sale, dell’essere diretto da Paolo Sorrentino e di altre interessanti curiosità che lo riguardano.

Nov 18, 2024
Foto di Piergiorgio Pirrone

Abbiamo apprezzato negli anni Dario Aita per le sue interpretazioni in serie di successo come “La legge di Lidia Poët”, “Il Cacciatore”, “Noi”, “L’allieva” e in film interessanti come “Primadonna”, “Il Giorno e la notte”, “La cena di Natale” etc. Ma è in queste settimane che l’attore palermitano ha dovuto superarsi sotto la guida di Paolo Sorrentino. Dario è, infatti, riuscito a interpretare Sandrino in maniera sublime, facendo arrivare al pubblico la semplicità d’animo del personaggio e facendo rivivere le sensazioni e l’emozioni di una giovinezza pronta a svanire troppo presto. Abbiamo intervistato proprio Dario Aita che si è raccontato su “La voce dello schermo” regalandoci un’interessante chiacchierata tra passato, presente e futuro. A voi…

Foto di Gianni Fiorito

Salve Dario, bentornato su “La voce dello schermo”. Ti abbiamo visto in “Parthenope” di Paolo Sorrentino. Lavorare con un regista di tale spessore deve essere per un attore un’esperienza molto gratificante…

Salve a tutti, bentrovati. Sì, credo che tantissimi attori in Italia e nel mondo vorrebbero lavorare con lui perché è un grande regista. Un giorno, chiacchierando con Gary Oldman, mi raccontò di quando Paolo lo aveva contattato per proporgli il ruolo, nonostante non fosse un protagonista, e lui gli rispose: “Io per te farei un’ombra riflessa sul muro”. Questa cosa mi colpì molto perché se a dirlo è uno dei più grandi attori che esistono al mondo, ti fa capire che stai avendo l’occasione di lavorare con un grande artista. È stata una grande responsabilità approcciarsi a un’opera di questa entità ma ritengo che il nostro lavoro sia fatto anche di cose semplici e di essermi avvicinato a questo ruolo con la massima semplicità possibile, guardando nell’animo dei personaggi e cercando di cogliere il fuoco del racconto, che ha tante anime e ognuno ci riconosce una propria. Sandrino porta dentro al film una specifica anima e ho cercato di parlare con quella.

Quali corde ti ha permesso di toccare interpretare Sandrino?

Io sto per compiere 38 anni ma ho interpretato un personaggio più giovane di me. Ritornare a una stagione così giovanile e a questa eterna estate di Capri è stato un bel regalo e ho trovato emozionante ripercorrere il periodo della giovinezza, per quanto possa essere doloroso. Uno dei temi a me più cari è lo scorrere del tempo, vedere come cambiano le persone negli anni, le ferite che ci portiamo dietro e la sensazione di non aver fatto tutto quello che avremmo potuto, di aver perso qualcosa strada facendo o di averne guadagnate altre. Tutti questi aspetti credo che riguardino Sandrino e risuonano molto sia in lui che in me. Un’altra caratteristica che ho amato di lui è stata la sua semplicità d’animo, un personaggio che possiede pochissime incoerenze, ha un obiettivo molto chiaro e un orizzonte limpido davanti a sé e cerca di perseguirlo come un devoto che ha molti pochi dubbi.

È molto significativo anche il dialogo finale tra lui e Parthenope…

Sì, quello è un momento molto importante perché è lì che avviene il passaggio dalla giovinezza all’età adulta, il momento in cui si perde quella sensazione di estate eterna, quel senso di immortalità propria della giovinezza e si ha a che fare con la finitezza della vita. Questo ci fa cambiare equilibri e obiettivi. Credo che questa scena racconti moltissimo il momento in cui si fanno delle scelte che cambiano la vita e in cui non ci si lascia trasportare dalla corrente. Quando si è giovani si è come una barca che viene trasportata a largo, a un certo punto arriva il momento in cui si prendono delle decisioni e quello è il momento che ti porta all’età adulta.

Che tipo di regista è Paolo Sorrentino?

Un regista visionario, con le idee molto chiare, che conosce bene le proprie esigenze artistiche, ha una grande sensibilità, si circonda di grandi collaboratori e ha un punto di vista estremamente originale, ironico e completamente privo di giudizio sull’esistenza.

Com’è stato raccontare la napoletanità da siciliano?

Secondo me Napoli e Palermo sono due città che hanno tanti punti in comune, sono due città di porto, che hanno molte contaminazioni culturali e che si fanno amare e odiare allo stesso tempo perché in entrambe si respira una sensazione di grande libertà, nel bene e nel male. Questa libertà si incontra e si scontra con quella altrui e quando si incontra è sempre un momento di grande gioia e Napoli da questo punto di vista è una città magica.

Spesso si leggono alcune critiche che accusano il regista di prendersi cura più del lato estetico rispetto alla parte narrativa del film. Cosa pensi a riguardo?

Le critiche lasciano il tempo che trovano. Il film sta piacendo tantissimo, è un’opera d’arte immensa. A volte vediamo film e serie tv che ripetono all’infinito le stesse trame ed è come se si andasse avanti per un algoritmo. È bello vedere dei film più personali, delle storie raccontate per delle esigenze e da persone che hanno un senso estetico e artistico alto. Paolo ce l’ha ed è uno dei più grandi registi che abbiamo in Italia e che ci siano al mondo oggi.

Il film offre una riflessione su quanto sia difficile vedere. Quanto pensi lo sia ai nostri giorni?

Credo che sia molto difficile perché siamo sovrastati in qualche modo da immagini, da simulacri e da proiezioni. Il cinema è una trasfigurazione ma dichiarata: io da spettatore so di assistere a questo e accetto il compromesso. Tutta la maggior parte delle immagini che ci circondano pretendono di essere reali, ma non sono altro che trasfigurazioni. Rappresentano ormai la fonte principale della nostra conoscenza e noi ci illudiamo di vedere, ma in realtà siamo soltanto degli osservatori abbastanza distratti e dobbiamo fare del lavoro abbastanza accurato per riuscire a vedere.

Foto di Gianni Fiorito

Un altro personaggio che ti siamo vedendo interpretare in queste settimane è quello di Andrea Caracciolo ne “La legge di Lidia Poët”. Cosa ami di lui e di questo set?

È stato un progetto molto bello e molto affascinante perché possiede molto respiro, mi diverte sempre far parte dei progetti d’epoca perché amo travestirmi, lavorare con degli ottimi colleghi come Matilda ed è sempre molto piacevole. È stato un bell’incontro con i colleghi con cui ho condiviso questa esperienza.

Cosa pensi del cinema e della serialità italiana del 2024?

Credo stiamo andando molto bene. Da spettatore guardo più film che serie tv, penso che il cinema italiano stia vivendo una buona stagione e negli ultimi dieci anni sono usciti bravissimi registi e se ne sono consolidati altri. Non sono tra quelli che vede nero il cinema italiano, il problema credo sia legato all’industria e a come le ultime riforme stiano riassestando il sistema produttivo. Mi auguro che in futuro ci sia sempre più spazio per nuove proposte, giovani registi e che venga data la possibilità di rischiare anche a registi meno conosciuti.

Hai mai pensato di cimentarti nella regia?

Assolutamente sì, è una cosa a cui penso spesso e credo che succederà presto.

Cosa ti piacerebbe raccontare?

Ho diverse storie in mente, difficile parlare di tutte. Fellini diceva che in fondo i registi fanno sempre gli stessi film e se dovessi scegliere una tematica da raccontare sceglierei la solitudine.

Cosa significa per te sperimentare?

Avere la possibilità reale di sbagliare ed è una cosa che c’è sempre meno, perché spesso il fallimento è punito drasticamente e non c’è la possibilità di commettere errori. Molti registi si autocensurano o scelgono di non rischiare per evitare di sbagliare e credo che sia una grave perdita però il mercato per certi versi lo impone.

Quale ritieni sia stata l’interpretazione che ti abbia fatto sperimentare di più durante la tua carriera?

In generale sono un attore che si butta abbastanza, un po’ incosciente e che ama il rischio ma forse ti direi il personaggio di Rosario ne “La Mafia uccide solo d’estate” perché mi ha divertito tanto, mi ci sono buttato nella sua caratterizzazione con molto coraggio, ho avuto tantissima libertà da parte del regista sulla sua invenzione e credo che sia una delle cose che mi ha divertito di più nella mia carriera.

Se fossi un giornalista che domanda faresti a Dario?

Gli chiederei cosa lo mette in crisi e risponderebbe: “La solitudine” e mi piacerebbe raccontarla da regista proprio per questo motivo.

Di Francesco Sciortino

By lavocedelloschermo

Francesco Sciortino, giornalista pubblicista dal 2014, appassionato di serie tv, cinema e doppiaggio. In passato cofondatore della testata online “Ed è subito serial”.

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