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Intervista a Paolo Calabresi: “‘Rapito’ di Bellocchio come un’opera d’arte. Amo esplorare anche generi diversi dalla commedia” L'attore, candidato ai Nastri D'Argento come miglior attore di commedia per "I Migliori Giorni", parla del film di Marco Bellocchio, del suo iconico Augusto Biascica di "Boris", delle sue innumerevoli trasformazioni e dei lavori con grandi maestri del teatro e del cinema.

Giu 16, 2023
PAOLO CALABRESI

Il film “Rapito” di Marco Bellocchio, nelle sale in queste settimane, oltre a essere un altro gioiello del cinema italiano, ci ha regalato diverse interpretazioni degne di nota. Oltre a quelle dei protagonisti come Barbara Ronchi, Fausto Russo Alesi e Paolo Pierobon, non è passata inosservata quella di Paolo Calabresi nei panni di Sabatino Scazzocchio, capo della comunità ebraica romana nella seconda metà del 1800 che rappresenta un personaggio chiave per far comprendere il rapporto quasi di sottomissione tra la comunità ebraica e lo Stato Pontificio dei tempi.
Con grande piacere, abbiamo intervistato su “La voce dello schermo” proprio Paolo Calabresi, che ci ha parlato di cosa abbia significato per lui vestire i panni di Scazzocchio, in un ruolo drammatico, e ci ha raccontato dell’attesa per i prossimi Nastri D’Argento, in cui è candidato come miglior attore in una commedia per la propria interpretazione ne “I migliori giorni” nei panni di Alberto, personaggio che presenta sfumature molto amare e tragiche. Una vera e propria svolta per l’attore, che ha dimostrato la completezza di un artista nato dal teatro di grandi maestri come Strehler, Missiroli e Ronconi, che ha saputo giocare con il proprio lavoro da attore anche nella vita reale grazie alle sue trasformazioni tra le quali spicca quella nei panni di Nicolas Cage, che è diventato una vera e propria icona della serialità grazie all’amatissimo Augusto Biascica in “Boris” e che si è consacrato sotto la direzione di registi come Mattia Torre, Giuseppe Tornatore, Marco Bellocchio, Roberto Faenza e Sydney Sibilia. A Voi…

*Foto e copertina di Azzurra Primavera

Salve Paolo. Benvenuto su “La voce dello schermo”. Parliamo di “Rapito”. Interpreti Sabatino Scazzocchio, un personaggio chiave per far comprendere la differenza di potere tra le due religioni a quei tempi e il potere dello Stato Pontificio di quegli anni. Cosa ha significato per te far parte di questa esperienza?

Salve a tutti. Grazie. Nonostante sia un ruolo un po’ contenuto all’interno del film, risulta decisivo per far comprendere meglio le vicende e lo sviluppo narrativo. È stata un’esperienza nuova per me. Da un po’ di anni cerco di alternare gli stili di recitazione e le forme espressive. Non amo fare soltanto commedie anche perché viviamo in un Paese in cui se interpreti un tipo di personaggio poi te lo fanno fare per tutta la vita. Se vesti i panni di un commissario o di un capo-elettricista rischi di interpretarlo per sempre. Credo che bisogna essere bravi a indirizzare la propria carriera ed è bene che un attore sappia saltare da un personaggio e soprattutto da uno stile all’altro.

Com’è stato lavorare con Bellocchio?

Bellocchio mi ha dato la possibilità di tirar fuori una parte di me che in genere non mi viene richiesta e lo ringrazio per questo. Sabatino Scazzocchio è un personaggio che non mi capita di poter fare sempre ed è una gioia per me avere l’opportunità di usare altre forme espressive. Marco, da regista illuminato, ha saputo vedere questo perché possiede un altro passo, come si dice a Roma. Ha una modernità e una rapidità di pensiero che fa impressione. È attento alle piccole cose, aspetto che caratterizza i grandi, e un’impressione simile l’ho avuta molti anni fa, quando ho lavorato a teatro con Strehler. Ho ritrovato una capacità di entrare dentro la rappresentazione totalmente pura, senza pregiudizi sul risultato finale che si vuole vedere ma semplicemente affidandosi alla storia e alla capacità degli attori di metterla in scena.

Che idea ti sei fatto del film da spettatore?

Non mi sono fatto un’idea precisa perché l’aspetto straordinario di questo film è che non espone una tesi, non manda messaggi chiari e l’ho visto come una vera e propria opera d’arte, che riesce a suscitare allo spettatore diverse reazioni. È un po’ come guardare la Gioconda: non capisci bene se stia ridendo, se ti stia prendendo in giro o se sia triste o allegra. La guardi e, dipende da come la osservi, ricevi qualcosa in cambio.

Parliamo de “I migliori giorni”. Sei candidato ai Nastri d’argento per la tua interpretazione nei panni di Alberto. Cosa significa per te questa candidatura (dopo quella di qualche anno fa in “Bentornato Presidente”) e interpretare un personaggio così amaro?

Le candidature ai premi fanno sempre grande piacere, nonostante qualche attore faccia finta che non gliene importi tanto. Sono il riconoscimento di un lavoro fatto, può sembrare scontato ma è così. Mi ha fatto molto piacere la candidatura e sono molto contento perché, pur essendo candidato all’interno della categoria commedia, il mio è un ruolo totalmente drammatico. È inserito all’interno di una commedia, in un film a episodi nel quale quello di Alberto è quello meno comico e molto amaro.

Sei stato diretto da registi del calibro di Bellocchio, Tornatore, Faenza. Quale lavoro dei registi con cui hai lavorato ti ha inorgoglito di più?

Sono orgoglioso di aver lavorato con ognuno di loro, a volte però l’esperienza che ti segna di più non riguarda necessariamente i grandi progetti. Sono molto legato a Mattia Torre per tanti motivi che potete immaginare e per me recitare ne “La linea verticale” è stata una delle esperienze più belle che potessi fare con un regista. Oltre alla straordinarietà della scrittura di quel prodotto, c’era anche tanto vissuto dietro.

*Foto di Azzurra Primavera

Riguardo la trilogia di “Smetto quando voglio”, qual è stata la forza di questi tre film?

È una commedia però, come tutte le vere commedie che sappiamo o che sapevamo fare noi italiani, parte da una situazione drammatica. Le grandi commedie che hanno caratterizzato il nostro Paese, così ricco di cultura cinematografica che speriamo di non dimenticare, sono commedie amare. “La grande guerra” finiva con i protagonisti fucilati, cito anche “Il sorpasso” e “Guardie e ladri” che testimoniano la nostra attitudine nel realizzare un tipo di commedia che metta in risalto spunti e tematiche riguardanti difficoltà di vivere e problemi profondi. “Smetto quando voglio” raccontava il tema della disoccupazione e di ricercatori che non trovano lavoro e analizzava una situazione disperante e tragica. La forza di quei film stava proprio in questo. Poi non nego che sia stata un’esperienza esilarante e bellissima. Sydney (Sibilia ndr.) è un regista molto particolare e non capita tutti i giorni di incontrarne uno così preparato.

Hai fatto grandi lavori, eppure Biascica ti segue sempre. Hai un po’ sentito il peso dell’aver interpretato un personaggio tanto amato?

Non è il caso di Biascica. È estremamente amato dal pubblico allo stesso modo di quanto lo ami io. È un pezzo di me e il personaggio a cui sono più affezionato. Non so dirti nemmeno il motivo, ma non mi dà fastidio quando mi associano a lui. Se mi dicessero di interpretarlo ogni anno lo farei fino all’infinito. L’aspetto che mi piace meno, invece, è quando mi vengono proposti personaggi che in qualche modo ricalcano o assomigliano a Biascica ed evidenzia il “vizietto” che abbiamo noi italiani: “A Calabresi gli facciamo interpretare il coatto romano”. Ma Biascica non è un coatto, è un uomo in difficoltà, dolcissimo che ha difficoltà espressive. Poi, ritengo che se abbia fatto bene questo ruolo va bene così e credo sia meglio cercare qualcos’altro nel nuovo personaggio da interpretare.

Cosa ha significato per te “Boris”?

“Boris” ha significato il vero innamoramento per il mondo dell’audiovisivo, del cinema e della macchina da presa. Prima di “Boris” avevo fatto spesso ruoli molto piccoli, in progetti molto belli, e avevo ricevuto anche sceneggiature di progetti scritti malissimo che in confronto “Gli occhi del cuore 2” era “Il Dottor Zivago”. Quando mi contattò Luca Vendruscolo, che non conoscevo e non so nemmeno come abbia avuto il mio numero, mi propose un provino per questo ruolo e mi inviò la sceneggiatura della puntata pilota di “Boris”. Ai tempi non si chiamava nemmeno “Boris” ma “Sampras” in onore del tennista Pete Sampras. A causa di divergenze con la Nike si decise di optare per “Boris” in onore di Boris Becker.

Qual è stata la tua reazione dopo aver letto la sceneggiatura?

Quando ho letto quelle sceneggiature, mi sono reso conto sin da subito che fosse un progetto futurista, con una comicità straordinaria, mai scontata, irriverente e non cedeva a nessun tipo di perbenismo, aspetto che invece nella tv generalista, soprattutto di quei tempi, imperava. Ho capito subito che si trattava di qualcosa di speciale. I personaggi sembrano al limite del surreale ma la loro vera forza consiste nel non scadere mai nel surreale. Tutti loro sono portati all’estremo, al paradosso, ma restano profondamente credibili. Quello che è successo a “Boris” è qualcosa di miracoloso perché, eccezioni a parte, molte serie tv sono destinate al dimenticatoio perché ce ne sono sempre di più, a parte i cult come “Lost” e “Breaking Bad”. Invece “Boris” è un esempio di longevità pazzesco. Nel 2010 si è conclusa la terza stagione e un anno dopo è arrivato il film. I ragazzi che oggi ci chiedono notizie sulla quinta stagione, durante la prima avevano quattro, cinque anni. Vuol dire che quel tipo di comicità era talmente avanti da essere almeno quindici o vent’anni avanti.

Si parla già di una quinta stagione?

Se ne parla come sempre si parla di “Boris”. Ho buone sensazioni a riguardo.

Si percepisce con la quarta stagione e con “Qui e ora” la volontà di continuare il lavoro di Mattia Torre. Cosa vi ha lasciato Mattia?

C’è una volontà ferrea di continuare il suo lavoro. Ci ha lasciato la capacità di saper mischiare la vita con l’arte e l’arte con la vita. Mattia non distingueva bene le due cose, le mischiava continuamente e saper rendere artistico esperienze di vita vissute, spesso anche dolorose, è un segno dei grandi. Noi quel poco e tanto che ci ha lasciato lo vogliamo portare più possibile avanti, ed è poco rispetto a ciò che avrebbe potuto lasciare ancora, ma tanto dal punto di vista della sostanza artistica e di scrittura teatrale, televisiva e cinematografica.

*Foto di Azzurra Primavera

Hai lavorato con maestri come Strehler, Missiroli e Ronconi, cosa ti ha dato il teatro?

Sono nato artisticamente nel teatro, non avrei potuto mai fare ciò che ho fatto nel cinema se non avessi avuto quel tipo di formazione. Sembra paradossale perché molti credono che il teatro, quello vero e raro, sia in contrasto con la recitazione cinematografica. Ma non è così. Tutti i grandissimi attori del passato hanno vissuto il palcoscenico e ritengo che l’essenza del nostro lavoro sia lì. Non abbandonerò mai il teatro perché lì ho imparato a giocare e capire che si possono fare tante cose diverse. Recitare non significa essere sé stessi come molti fanno credere. A volte c’è bisogno di esserlo, di tirar fuori cose che assomigliano molto a te stesso ma il nostro lavoro consiste nell’essere altri.

Se fossi un giornalista, che domanda faresti a Paolo?

Non lo so perché, in realtà, non ho molta coscienza di quello che sono. Forse gli chiederei come mai non ha mai avuto la forza di provare la regia, nonostante abbia avuto il coraggio di fare tante cose diverse in teatro, in televisione, al cinema e nella vita reale come quando ho fatto tutte le operazioni trasformiste, da Nicolas Cage, Marilyn Manson e altre follie. Risponderei che sono un po’ pigro e timido perché penso che ognuno debba fare il proprio mestiere però, a volte, può essere un alibi per non rischiarsela. L’ho fatto in altre situazioni, ma riguardo la regia mi è stato chiesto diverse volte e non ho mai avuto questo coraggio. Magari arriverà il momento in cui lo avrò.

Se potessi rubare un ruolo a un tuo collega, quale sceglieresti?

Un ruolo che ho sempre amato è quello di Dustin Hoffman in “Tootsie” e glielo avrei rubato volentieri. È un ruolo straordinario, che racconta la disperazione di un attore che pur di lavorare mette in atto delle follie impensabili, un po’ com’è successo a me. Ho cominciato a fare le operazioni di trasformismo nel periodo di maggiore disperazione della mia vita.

Ci sono altre esperienze che non abbiamo citato e che vorresti ricordare?

Il programma “Italian Job” è stato figlio di quel periodo in cui trasportavo il mio lavoro da un set cinematografico o da un palcoscenico alla vita reale. L’ho fatto per anni, non soltanto con Cage, ma con altri personaggi che la gente nemmeno conosce. Ero diventato una scheggia impazzita del sistema. Non facevo questi lavori per una produzione né per farle vedere, le facevo solo per me stesso. Quando sono stato inglobato dal sistema, questo aspetto si è un po’ perso. “Italian Job” mi ha permesso di fare una quindicina di lavori diversi, in situazioni reali e ha rappresentato il momento di passaggio di cui parlavo prima, da una dimensione autonoma e libera a una dimensione in cui non lo ero più perché dovevo sottostare a delle regole imposte dal sistema televisivo.

Non ti pesava il fatto che la gente non potesse riconoscere la tua performance da attore?

No, non mi interessava che si sapesse in giro. Mettevo alla prova me stesso, il mio istinto e le mie qualità artistiche. Era un modo per trovare un’espressività e tornare al centro del mio mestiere. Fare Nicolas Cage in uno stadio, all’insaputa di tutti, non è facile soprattutto dal punto di vista emotivo, ci vuole coraggio, abnegazione e fare il proprio lavoro in maniera totale, non avendo la possibilità di fare un altro ciak o prove. I tuoi colleghi, in quella scena, sono perfettamente in parte perché non sanno di esserlo: Galliani era un Galliani perfetto, così come il presidente del Real Madrid. Dovevo essere allo stesso livello di credibilità, cioè perfetto come Cage, ma ero l’unico cosciente di essere dentro un gioco, quello del teatro fondamentalmente.

Sappiamo che stai girando in Sicilia…

Sì, sto girando la serie Netflix “Il Gattopardo”, ma non posso dire altro a riguardo.

Questo portale si chiama “La voce dello schermo”. Cosa significa per te ascoltare la voce dello schermo?

Significa dare un suono a delle immagini, se questo suono coincide con la credibilità delle immagini significa fare il giro completo.

 

Di Francesco Sciortino

By lavocedelloschermo

Francesco Sciortino, giornalista pubblicista dal 2014, appassionato di serie tv, cinema e doppiaggio. In passato cofondatore della testata online “Ed è subito serial”.

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