La voce dello schermo inaugura la sua rubrica dedicata al mondo del doppiaggio. Cercheremo di far luce su questo settore che caratterizza il cinema del nostro Paese da generazioni, cercheremo di comprendere cosa avviene all’interno di questo mondo e le difficoltà che si celano tra doppiaggio e adattamento. Come sappiamo, il mondo del doppiaggio viene spesso criticato, a volte giustamente altre volte meno. Indagheremo sulle cause e i motivi che a volte rendono un adattamento mal riuscito e quali sono i doppiaggi e gli adattamenti di cui dovremmo andare fieri. A inaugurare la rubrica sarà Antonio Palumbo, uno dei più versatili doppiatori italiani e dialoghista. Antonio ha doppiato importantissimi attori del panorama mondiale, personaggi come Goemon di “Lupin III”, Sayid di “Lost”, vari personaggi ne “I Soprano”, adattato parte di “Breaking Bad” e non solo. Ci parlerà delle difficoltà riscontrate nel sottolineare le diversità geografiche come accaduto in Sayid e Bobby Baccalieri, dell’adattare prodotti che, in lingua originale, sono molto differenti rispetto a quelli italiani e analizzerà quanto il doppiaggio sia cambiato, soprattutto negli ultimi anni.
Salve Antonio. Benvenuto su “La voce dello schermo”. Hai doppiato tanti personaggi, come Goemon in “Lupin III”, Sayid in “Lost”, Bobby Baccalieri ne “I Soprano” e grandissimi attori. Quali sono quelli che ti sono rimasti più a cuore e perché?
Salve a tutti. Sono personaggi molto differenti tra loro. Ritengo di avere una certa duttilità interpretativa e mi è capitato, durante la mia carriera, di doppiare personaggi molto diversi tra loro, alcuni estremamente caratterizzati altri meno. Sayid di “Lost”, ad esempio, è particolarmente caratterizzato. Su alcuni ho dovuto penare un po’ di più, su altri meno a livello lavorativo o interpretativo. Ne “I Soprano”, in cui ho doppiato diversi personaggi, ho potuto sfruttare anche il fatto di essere nato a Napoli e il mio accento napoletano. Mi sono divertito molto e ho fatto tutto con piacere, nonostante stessi facendo il mio lavoro.
Quali sono le difficoltà inerenti a questo mondo?
Nel doppiaggio c’è sempre un direttore o una direttrice che fa le veci del regista dell’opera in questione. A volte può capitare che, in alcuni momenti, la propria creatività sia un po’ influenzata da ciò che pensa il direttore o magari ci si può trovare in una situazione di non comprensione totale tra quello che desidera lui e quello che faresti tu. In questo caso, il lavoro diventa un po’ più faticoso perché deve subentrare la mediazione. Doppiare è un lavoro molto tecnico, perché abbiamo a che fare con il sync, ma al di là della tecnica c’è anche un aspetto interpretativo e istintivo. Quando il tuo istinto dice di fare delle cose o non ti fa capire l’esatta dimensione di quello che sta succedendo, in quel caso interviene il direttore e devi anche tu essere in grado di recepire il suo messaggio. Molti aspetti vengono affrontati con molta tensione, perché sono aspetti importanti, come per esempio se la scena e il film sono belli e l’attore è bravo. Spesso capita che, quando si crea uno stato di tensione emotiva molto forte, non sempre si riesce a trovare la giusta dimensione tra il sapere ascoltare e saper tradurre in situazione ciò che viene detto. Ci sono situazioni in cui una scena viene ripetuta anche decine di volte. È importante, da parte di tutti, riuscire a portare a casa il lavoro nel modo migliore possibile.
Parliamo del personaggio di Sayid. Come si costruisce un personaggio proveniente dal mondo mediorientale?
Sono stato affiancato da dialogue coach mediorientali, come capita spesso quando si doppiano personaggi di altra nazionalità, che erano madrelingua e che dicevano dove mettere la cadenza, la musicalità o davano indicazioni su come dire con esattezza le parole. In questo caso, improvvisamente, è diventato tutto molto facile, soprattutto per la musicalità che c’è nella lingua araba, in particolar modo in quella irachena che si basa molto sulla musica. Una volta appreso quello, è stato tutto automatico. Anche qui, c’è stata una mediazione per rendere più comprensibile tutto, perché spingere troppo avrebbe reso incomprensibili alcune parole. Si è cercata una mediazione, che non offendesse nessuno e si avvicinasse al suono della lingua araba. Poi tantissimi fattori hanno contribuito a farmi amare questa esperienza: la serie era bellissima, Naveen Andrews era molto bravo, gli adattamenti erano stati fatti nel migliore dei modi. È stata un’esperienza divertente, soddisfacente e non difficoltosa come potrebbe sembrare.
Quali altri aspetti hanno contribuito alla migliore resa di questo personaggio?
È chiaro che anche Naveen Andrews ha dovuto costruire un personaggio in cui ha dovuto interpretare un iracheno. Ha dovuto fare un percorso su cui ricreare poi ciò che ha trasmesso al suo personaggio, mi sono basato molto sulle sue caratteristiche e sulla sua espressività.
I tuoi personaggi sembrano quasi doppiati da persone diverse, grazie alla tua duttilità. In base a cosa cambi il timbro?
In base a ciò che fa l’attore o il cartone di riferimento. Il nostro riferimento è sempre l’originale e così deve essere. L’attore che costruisce il personaggio lo fa utilizzando un certo tipo di vocalità, di atteggiamento, di un certo tipo di fisicità e di alcuni costumi. Chi lo sta doppiando deve saper cogliere tutti questi aspetti che sono serviti all’attore e alla regia per ricrearlo nella lingua di riferimento. Il modo in cui recita l’attore, è una guida per quello che poi andremo a ricreare noi. Deve esserci rispetto per il lavoro che ha fatto l’attore e capire le linee guida da seguire, ovvero le caratteristiche che l’attore ha creato per quel personaggio in quel momento. In base a quello lavoriamo in team con chi ci dirige in quel momento.
Dall’incontro tra americano e iracheno a quello tra America e Italia. Ne “I Soprano” come viene affrontato questo aspetto?
Anche qui è stato fondamentale il lavoro di mediazione da parte di chi doveva dirigere. Noi ci siamo affidati alle nostre origini linguistiche. Io, essendo di origini campane, ho una certa propensione verso quel tipo di musicalità e dialetto. È stato come giocare in casa, a differenza di Sayid in “Lost”, in cui ho dovuto creare un accento e una sonorità, ne “I Soprano” veniva naturale. La difficoltà nel recitare nel dialetto è quella di poter non riuscire a seguire bene la traccia del personaggio in questione. Ne “I Soprano” erano tutti italo-americani e con un loro modo di intendere il dialetto che non è reale, ma solo americano. Se fosse stato riportato nella versione italiana sarebbe risultato ridicolo. Abbiamo dato una versione più reale rispetto a quello che avrebbero potuto dare loro, per difficoltà linguistiche. Una volta stabiliti dei parametri e capire quanto spingere con il dialetto, tutto è andato avanti in maniera naturale.
Magari è una domanda retorica: il doppiatore deve essere anche attore?
Hai ragione, forse è una domanda retorica, che dovrebbe essere quasi scontata, ma così non lo è. Il doppiaggio nasce grazie all’intervento di attori di prosa, chiamati per confrontarsi con questo nuovo mezzo. Per me è quasi fondamentale essere anche attori. Negli ultimi decenni, però, non è più un requisito fondamentale, essendo cambiato anche l’approccio al doppiaggio. Può succedere che qualcuno che non ha mai fatto esperienze attoriali, magari si ritrova a fare doppiaggio, ma non significa che non sia un attore. È sempre un attore che ha limitato le proprie conoscenze al doppiaggio ed è funzionale a quel settore nel quale sta operando, anche con ottimi risultati.
Che ne pensi riguardo i talent?
In realtà, riguardo i talent ho visto anche molte sorprese. Se nell’opera originale ci sono dei talent, dove per dei cartoni vengono scelti determinati personaggi, si cerca di seguire la stessa linea utilizzata. C’è una richiesta specifica da parte del committente di trovare dei talent anche italiani. Il discorso è legato alla bravura dei talent o meno, che si riferisce anche al non avere mai fatto doppiaggio. A volte ci sono operazioni fallimentari in partenza, ma altre sono state delle gradevoli sorprese. Vedo come spettatore tanti film e cartoni animati e da spettatore molte volte sono rimasto piacevolmente sorpreso da alcuni talent che non avevano mai fatto doppiaggio. Devo dire che non sono ostico nei confronti di queste operazioni.
Perché secondo te il doppiaggio viene troppo attaccato?
A volte viene attaccato giustamente, altre volte meno. Magari alcun i prodotti potevano essere adattati meglio, in maniera più coscienziosa e meno superficiale. Magari non viene compresa al meglio l’idea dell’opera originale. Una delle cause può dipendere dal poco tempo che si ha a disposizione per lavorare sull’adattamento, con tempi di consegna strettissimi e non si ha il tempo, come accadeva prima, di lavorare al meglio sul progetto. Un altro motivo per cui viene attaccato è un motivo di élite culturale, con tutto il rispetto possibile per chi ha questa idea, ma lascia un po’ il tempo che trova. La fruibilità di un prodotto doppiato diventa totale, sicuramente con dei limiti perché il doppiaggio mette le mani su qualcosa che nella sua integrità ha un senso, ma quando viene adattato qualcosa si perde. Ma si tratta di un compromesso per rendere più fruibile il film o la serie. Ne nasce una critica a priori che molte volte non tiene conto che la stragrande maggioranza della popolazione italiana ancora non è linguisticamente pronta per affrontare nel modo migliore altre lingue. Il sottotitolo non sempre è la soluzione migliore, è vero che con il doppiaggio qualcosa perdiamo del messaggio originale, ma è anche vero che con il sottotitolo, dovendo avere gli occhi sul testo si perde tanto perché non si riesce a vedere bene l’immagine. Mi sarebbe piaciuto confrontarmi con qualche hater del doppiaggio. Credo che in molte circostanze abbiano ragione, in altre non tengono conto della fruibilità. Se un’opera viene doppiata è anche per un’esigenza commerciale. Chi commissiona il lavoro, sa benissimo che avrà un rientro in base alla più larga fruibilità dell’opera.
Il doppiaggio negli ultimi anni è cambiato molto. Quali pensi siano le conseguenze legate a questo cambiamento?
Ho avuto modo di vedere come sia cambiato l’approccio lavorativo, grazie anche all’avvento di una tecnologia sempre più massiccia in questo lavoro. Quando ho cominciato, si lavorava con la pellicola, che veniva suddivisa in anelli. Essendo i tempi di lavorazione molto più lunghi, si aveva modo di costruire qualcosa in più. Adesso, con l’avvento del digitale, basta inserire sulla tastiera una codifica e si riesce ad accedere all’anello di riferimento in un secondo. I tempi di lavorazione hanno subito un’accelerazione improvvisa e questo aspetto non ti permette di riflettere abbastanza su ciò che stai facendo.
Tu sei anche dialoghista. Ti ricordi qualche dialogo in particolare che ti ha messo un po’ in crisi?
Generalmente mettono in crisi quasi tutti i dialoghi, perché magari ci sono dei riferimenti culturali che tu sai di non potere utilizzare del tutto, altrimenti non sarebbero fruibili nella cultura di destinazione. Oppure c’è una velocità di costruzione della battuta che risulta complicata metterla bene in sync e ricreare lo stesso senso. C’è sempre un momento in cui si va in crisi. Ho avuto la possibilità di adattare “Breaking bad”, in cui ho doppiato anche Michael Bowen. La serie aveva degli attori magnifici, una sceneggiatura meravigliosa, e lì la difficoltà che ho avuto è stata quella di cercare di rovinare il meno possibile quanto scritto nell’originale. Il lavoro del dialogo è una mediazione continua e cercavo di rendere il tutto più fedele possibile all’originale.
Altri adattamenti che ti hanno messo alla prova?
Ho adattato “La scelta del re”, un film uscito qualche anno fa su un evento storico successo in Norvegia. I protagonisti parlavano in norvegese, che è una lingua con dei suoni completamente differenti rispetto a quelli che conosciamo, ha un’altra costruzione grammaticale ed è stato un po’ faticoso ma interessante e stimolante.
Collabori con una scuola di doppiaggio, cosa cerchi di insegnare ai tuoi alunni riguardo questo mondo?
Cerco di insegnare il valore della fantasia. Credo che, oltre ai tantissimi aspetti tecnici, l’elemento più importante sia la fantasia. Così come accade per ogni artista, la fantasia consente, nell’ambito del doppiaggio, di entrare in una dimensione che non ti appartiene in quel momento e che è molto diversa. Noi ci troviamo in una sala, davanti a un leggio e doppiamo qualcosa che gli attori hanno fatto dal vivo. Noi dobbiamo ricreare quella sensazione e per ricrearla ci vuole fantasia, che ci porti in una macchina quando non ci siamo, a litigare con qualcuno quando non ci stiamo litigando e non lo abbiamo di fronte, a correre quando non stiamo correndo. Dobbiamo riuscire a dare quell’idea e quel senso di realtà e possiamo riuscirci soltanto attraverso la fantasia.
Come immagini il doppiaggio tra qualche anno?
Sinceramente non lo so, credo che per qualche decennio si abbia ancora la possibilità di sentire prodotti doppiati. Non voglio spingermi molto oltre, perché non ne ho idea. È un mondo in continua evoluzione. È di qualche settimana fa l’annuncio di una piattaforma in grado di sintetizzare le voci e che riesce a far dire quello che ognuno vuole e a farla recitare. Potrebbero campionare la mia voce, si spera dietro consenso, e poi usarla nei modi che ritengono opportuno. Quindi non so. Spero che il doppiaggio possa continuare a svolgere la propria funzione, fatta con molta dedizione e amore per il lavoro svolto e mi auguro che possa continuare.
Questo portale si chiama “La voce dello schermo”. Cosa significa per te ascoltare la voce dello schermo?
Lo schermo è un mondo di fantasia, a cui tengo particolarmente. La voce dello schermo è un mondo, quello che sta riproducendo un attore e la sua voce è un elemento fondamentale. Mi piace considerarla l’unico strumento che abbiamo noi attori e doppiatori per essere paragonati a dei musicisti, con tutto il rispetto. È uno strumento, se lo strumento è suonato bene trasmette emozioni e più note riesce a far suonare più mi trascina in un mondo in cui ho piacere di stare.
Di Francesco Sciortino