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Dom. Ott 6th, 2024

Intervista a Richard Sammel: “Far parte di ‘Brennero’ è stata una bella sfida. Raccontare storie è importante per l’essere umano” L’attore, che ha fatto parte di serie come “The Strain” e di capolavori del cinema come “Bastardi Senza Gloria”, “La vita è bella” e “Casino Royale”, racconta l’esperienza in “Brennero” in esclusiva su “La voce dello schermo”.

Ott 1, 2024

Non capita tutti i giorni di incontrare un attore con un bagaglio artistico come quello di Richard Sammel. “La vita è bella”, “Bastardi senza gloria”, “The Strain”, “Casino Royale”, “Spencer”, sono tutti titoli che dimostrano il grande talento che ci troviamo di fronte quando si parla di Sammel.
Su “La voce dello schermo” abbiamo avuto l’onore di intervistare proprio l’attore tedesco, in queste settimane in “Brennero”, la serie tv prodotta da Cross Productions e diretta da Davide Marengo e Giuseppe Bonito che sta entusiasmando il pubblico di Rai 1. L’attore ha raccontato della bella sfida che ha rappresentato per lui interpretare Gerhard Kofler e il lavoro compiuto per rendere credibile un personaggio più anziano di lui e affetto da Alzheimer. Sammel ha parlato, inoltre, della forza di “Brennero”, della bella novità che ha rappresentato anche per lui e di altre interessanti curiosità sulle straordinarie interpretazioni di un attore apprezzato in tutto il mondo. A voi…

Salve Richard, benvenuto su “La voce dello schermo”. La stiamo vedendo in “Brennero”, nei panni di Gerhard Kofler. Com’è stato interpretare questo personaggio e raccontare un uomo che convive con le fasi iniziali di Alzheimer?

Salve a tutti. Grazie. Nonostante inizialmente abbia pensato di essere troppo giovane per interpretare la parte, devo dire che, con il trucco e senza spingere troppo, siamo arrivati a ottimi risultati. Riflettendoci, ho capito anche che interpretare un personaggio più anziano di me fosse un grande attestato di stima nei miei confronti. È stato fondamentale riflettere su stereotipi che riguardano la cultura tedesca e quella italiana e il dover rendere le due culture presenti nella serie. Ho dovuto, inoltre, lavorare sul rapporto paterno con Elena Radonicich ma ho una figlia che le somiglia molto e sono stato fortunato. Mi sono trovato molto bene anche con i registi, Davide (Marengo ndr.) e Giuseppe (Bonito ndr.). Il punto di partenza era già ottimo e, quando si ha la fortuna di condividere lo stesso approccio al lavoro, tutto diventa un’interessante collaborazione e non una lotta. È stato molto bello.

Com’è stato essere diretti dal duo Bonito – Marengo?

Si è creata sin da subito una bella amicizia professionale. È stupendo collaborare con persone che apprezzi. Loro erano gasatissimi di lavorare con me e lo ero anche io. Cosa chiedere di più?

Quale pensa che sia il suo approccio nei confronti del lavoro?

Credo che la cosa più importante per me sia la voglia di fare ed essere convinto del progetto. Cerco di trovare, in ciò che mi propongono, qualcosa di difficile da realizzare. Per tanto tempo sono stato conosciuto per le mie interpretazioni nei panni del tedesco, nazista, cattivo, psicopatico o assassino e, a un certo punto, cominci a ripeterti. Credo che nell’arte sia fondamentale non essere ripetitivo. Mi piace e mi stimola molto il non essere sicuro di essere all’altezza del progetto. Con “Brennero” è stato un po’ così. Faccio sia corti che lavori a Hollywood perché mi innamoro di una storia e voglio portare il personaggio che interpreto il più lontano possibile. Se la storia mi dà la possibilità di sorprendermi e di farmi crescere, io la seguo.

Secondo lei, quali sono i punti di forza di “Brennero”?

Di raccontare un conflitto poco affrontato nelle serie tv e di non metterlo al centro dell’attenzione. È un giallo, si parla di un serial killer e la serie utilizza la diversità culturale all’interno di un conflitto poliziesco. L’argomento è stato trattato in maniera impeccabile e in modo da raccontare entrambi i punti di vista. Essendo una produzione italo-tedesca, gli italiani lavoravano con dei coach tedeschi e viceversa, in modo da riportare in maniera convincente la convivenza tra due culture.

Tra le esperienze recenti, quali le sono piaciute maggiormente?

La serie “La corda”, girata qualche anno fa, con Suzanne Clément e Jean–Mark Barr è stata molto caratteristica. Interpretavo un capo di un gruppo di scienziati che lavoravano in un bosco disperso tra le montagne della Finlandia e dovevamo risolvere misteri dello spazio. Quei boschi fitti mi facevano stare molto a contatto con la natura.

Tra le altre serie, ha interpretato Thomas Eichorst in “The Strain”. Cosa ha amato di questo personaggio?

Sicuramente la metafora di Guillermo del Toro che fa capire agli esseri umani come gli animali concepiscono il loro comportamento. I vampiri si comportavano nei confronti degli umani come questi ultimi si rapportano al resto del mondo. Tutto quello che trovano è cibo potenziale e nell’armonia del mondo non siamo sicuramente i migliori a rispettare ciò che la natura ha creato.

Se dovesse riassumere la sua carriera in tappe, quali pensa che siano state quelle più significative?

Ho iniziato con la scuola di teatro prima di scoprire cinema e televisione e mi ha consentito di imparare bene il mestiere già a livello internazionale. Poi, come seconda tappa, cito l’incontro con Susan Strasberg e quando ho frequentato la scuola di cinema perché mi ha aperto la strada verso il grande schermo e mi ha creato tante opportunità; la terza fase è sicuramente l’accumulo di tutte queste esperienze, che mi porta a vedere a che punto la gente sia impressionata dal mio itinerario artistico e lo sono anche io quando mi dicono: “si rende conto? Ha fatto più di 100 film!”. Non ne ero a conoscenza nemmeno io e da quel momento ho scoperto IMDb. Con il passare degli anni mi rendo conto di recitare di meno e di giocare e divertirmi di più.

Ha fatto parte di film di fama mondiale come “Bastardi senza gloria”, “La vita è bella”, “Casino Royale” etc. Quando si deve confrontare con un progetto del genere, qual è lo stato d’animo che prevale? L’ansia o l’adrenalina?

Credo si avvertano entrambe. Tuttavia, molto presto, nel mio lavoro ho trovato la formula per trasformare l’ansia in creatività. Se ho paura di qualcosa che mi piace vuol dire che è qualcosa che amo e quel timore indica che c’è qualcosa da superare, da guadagnare e da maturare in me. Ho scoperto che l’ansia non se ne va ed è meglio sfruttarla per fare un buon lavoro anzi, a livello artistico, è proprio lei che ti dice che sei sulla strada giusta e che ti può fare crescere. Quando ti confronti con delle difficoltà non ancora superate è facendo ciò che ti mette paura che riesci a sconfiggerla. Per questo motivo amo lavorare con gli americani perché ti mettono una pressione positiva: da “The Strain” a “Casino Royale” e a “Bastardi senza gloria” erano convinti di aver fatto la scelta migliore e ciò mi ha dato l’energia per mettere tutto me stesso in quelle interpretazioni.

Riesce ancora ad avvertire questa pressione?

Ma certo. Paragono un po’ cosa succede nella carriera di un attore a ciò che accade con l’alcol: quando si è giovani si beve un po’ quello che si trova ma, facendo ciò, ti rendi conto che paghi il conto dopo, avvertendo la testa pesante e malessere. Crescendo, sviluppi un gusto e riesci ad apprezzare il buon vino. Nella mia carriera non faccio più cose che non voglio fare perché a volte mi viene chiesto di ripetere un qualcosa che ho già fatto. Per me le scelte vanno fatte bene e con cautela, soprattutto tenendo conto della qualità. Nei grandi progetti in cui ho lavorato si avvertiva immediatamente che si trattava di qualcosa di buono.

Che differenze ha notato tra serialità e cinema italiano ed estero?

Se per certi aspetti la situazione cinematografica italiana possa sembrare catastrofica, è sempre caratterizzata dal genio e si avverte la disperazione gioiosa. È molto difficile produrre in Italia ma c’è sempre del genio a salvare la situazione e come reazione. Basti pensare agli Oscar: ogni cinque/otto anni l’Italia vince l’Oscar.

Dove la vedremo prossimamente?

A breve uscirà in Germania e poi su Netflix un’altra serie importante che si intitola “A Better Place” ed è una co-produzione di Komplizen Film, con cui avevo già lavorato in “Spencer” con Kristen Stewart. Si parla di dei prigionieri messi in libertà per attuare un programma sociale per dimostrare se attraverso il lavoro e dandogli un appartamento riescono a reinserirsi, tuttavia la società non vorrebbe questa soluzione ma preferirebbe che chi ha commesso i crimini venga punito. La serie presenta questa riflessione a livello sociale molto interessante. A gennaio uscirà una grande produzione science fiction di cui non posso parlare. Infine, sarò a teatro che porterò in giro per l’Europa ed è “La morte felice”, tratto dal primo romanzo di Albert Camus, su cui sto lavorando da quattro anni e finalmente siamo pronti per andare in scena.

Se fosse un giornalista, che domanda farebbe a Richard?

Chiederei se è contento nella vita. Risponderei: “Adesso sì, ma ammazza che lavoro!” (ride ndr.). Negli ultimi dieci anni ho fatto una riflessione sulla qualità di vita privata e di quella professionale e ho capito che non si può fare una carriera stupenda senza curarti della tua vita privata. Bisogna a volte ricaricare le pile per essere in grado di dare qualcosa davanti la macchina da presa. È una filosofia di vita che condividono anche Jack Nicholson e Daniel Day Lewis, attori che ammiro tanto. A Lewis è stato chiesto perché sparisse per anni prima di fare un altro film. Ha risposto facendo un esempio riguardante l’agricoltura: “se si lasciano riposare i campi per qualche anno, trascorso questo periodo, quando si pianteranno i semi cresceranno sempre di più”.

Questo portale si intitola “La voce dello schermo”. Cosa significa per lei ascoltare la voce dello schermo?

Significa raccontare storie. Mi ha molto colpito un’intervista che ha rilasciato Salman Rushdie durante la quale ha individuato in ordine le tre cose che un neonato cerca: la prima è il cibo; la seconda l’amore, attenzioni e tenerezza; e la terza di raccontargli una storia. Raccontare storie fa parte delle cose più importanti di un essere umano perché in questo modo diamo un senso alla vita. Reali o inventate, sono fondamentali per sopravvivere.

Di Francesco Sciortino

By lavocedelloschermo

Francesco Sciortino, giornalista pubblicista dal 2014, appassionato di serie tv, cinema e doppiaggio. In passato cofondatore della testata online “Ed è subito serial”.

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