Il 21 ottobre la Camera dei deputati ospiterà “We Breast. Dalla cura al prendersi cura”, un evento organizzato in occasione della Giornata Internazionale contro il tumore al seno e che unisce rigore scientifico, forza istituzionale e linguaggi artistici e che ha l’obiettivo di porre l’attenzione sul carcinoma mammario, la prima neoplasia femminile per incidenza.
Ne abbiamo parlato con Roberta Rovelli, che durante l’ultimo anno abbiamo ammirato in prodotti di successo come “Hanno ucciso l’uomo ragno – La leggendaria storia degli 883” nei panni della madre di Max Pezzali, in “Vermiglio” in cui ha interpretato Adele, e in “Brennero”. Roberta sarà parte integrante di “We Breast” attraverso una performance artistica che impreziosirà l’evento e che, attraverso in linguaggio delle arti, racconterà le fasi della malattia: dalla diagnosi al percorso di cura, fino alla rinascita. L’attrice esplorerà la terza fase, quella della cura, e il progetto proverà a sensibilizzare la gente sull’importanza della prevenzione e su come aiutare le persone ad affrontare la malattia. A voi…

State portando avanti l’evento “We Breast – dalla cura al prendersi cura”. Di cosa si tratta?
Faccio parte di questo spettacolo ideato, pensato e scritto da Alessandro Sampaoli e in alcune parti anche da me. Sono quattro monologhi che abbiamo intitolato: “La scoperta”, “La disperazione”, “La cura” e “La rinascita”. Raccontano al femminile le quattro fasi che potrebbero vivere o quattro donne diverse o la stessa donna nel momento in cui si entra in contatto con la malattia in quattro fasi diverse della vita.
In che modo vengono raccontate le quattro fasi?
Nella prima parte la protagonista è una giovane nuotatrice che scopre la malattia nel pieno della sua attività. Dopo, si giunge alla seconda parte, che è quella della disperazione nel momento in cui viene data la diagnosi medica. In questo caso è una madre che parla e che racconta la paura di quei momenti, di poter perdere i propri figli e di essere in quella fase della vita in cui pensare di lasciare qualcuno è difficile. La terza parte è quella della cura, in cui il personaggio interpretato da me affronta la malattia, decide di curarsi e inizia un iter che le dà una luce alla fine di questo tunnel. Vivrà un periodo che si alterna tra momenti bui e difficili, sia fisici sia psicologici, fino a quando la medicina comincia a dare qualche speranza. Infine, si arriverà alla fase della rinascita in cui è stato importante sottolineare il recupero di una vita, come tornare alla normalità e come affrontare una vera e propria ricostruzione fisica.
Un concetto chiave è sicuramente quello di “forza”. Dove si riesce a trovare in queste situazioni?
La forza arriva dal bene di chi ti circonda in questi momenti della vita così difficili. Si riesce a comprendere quanto è importante tutta la rete di affetti che si può avere intorno, dal medico alla famiglia e gli amici.
La medicina non è spesso sostenuta come dovrebbe. Come pensi possano aiutare cultura e arte questo ambito?
La cultura e l’arte possono sensibilizzare certe tematiche. Quello che noi ci auguriamo è che questo progetto non si fermi a questo evento a Montecitorio e speriamo di poterlo presentare nelle scuole. Crediamo che sensibilizzare i giovani sulla prevenzione possa essere importante come dialogo in famiglia e che possa aiutare le persone a una diagnosi puntuale. A volte perdere un anno di prevenzione può diventare fatale. Crediamo che l’arte possa sensibilizzare e portare in certi ambienti una maggiore attenzione su questi argomenti.
Come sei arrivata a questo progetto?
Sono stata coinvolta da Alessandro Sampaoli, il regista, che conosco da anni e con cui ho lavorato altre volte. Mi ha interessato questo progetto e ci siamo documentati tanto per poter scrivere questo testo: abbiamo letto e ascoltato tantissime testimonianze e, nonostante sia un prodotto di fantasia quello che abbiamo realizzato, siamo partiti da storie di donne che hanno attraversato – in varie fasi della vita – questo difficile momento. Ci siamo affidati alle loro parole scrivendo questo testo e noi facciamo da tramite per dare voce e corpo a queste donne.

Pensi che, in questi giorni, la medicina sia sostenuta adeguatamente o bisognerebbe fare di più?
Bisognerebbe fare di più. Non c’è dubbio. Ci vuole un’attenzione diversa e la medicina deve essere una priorità se si vogliono cambiare davvero le cose.
Spostandoci al tuo percorso artistico, ultimamente ti abbiamo visto interpretare la mamma di Max Pezzali in “Hanno ucciso l’uomo ragno – La leggendaria storia degli 883”. Che esperienza è stata ed è per te?
Lavorare con Sydney Sibilia e con gli altri registi è stata una bellissima esperienza e molto interessante. È un ottimo gruppo di lavoro, è stato molto piacevole e un progetto che ha avuto un successo straordinario. La storia di Max Pezzali porta l’attenzione su questi casi della vita di queste persone straordinarie che potrebbero rimanere nel buio e che, invece, per degli accadimenti trovano una luce inattesa e inaspettata.
Cosa comporta il dover dividersi tra più registi?
È stata una bella sfida perché come attori dovevamo interfacciarci con una linea generale che era la stessa, ma con caratteristiche e personalità diverse dei registi. L’attore in queste situazioni deve rendersi malleabile.
Come si riesce a interpretare sempre lo stesso personaggio con registi differenti?
È stato importante seguire una linea comune e ben chiara. L’obiettivo condiviso era lo stesso per tutti: fare un ottimo lavoro, mantenendo credibili i personaggi senza che diventassero delle macchiette. Poi ognuno di loro ha un proprio gusto che portava un attore a spingere verso una direzione anziché un’altra.
Cosa dobbiamo aspettarci dalla seconda stagione?
Si racconta il successo dei due personaggi e tutto quello che ha investito questi due ragazzi di provincia. Sarà esplorato sempre in maniera divertente, ma con i genitori meno presenti, essendo i ragazzi più adulti. Max Pezzali vivrà più fuori casa rispetto alla prima stagione. Tuttavia, è divertente il fatto che, malgrado il successo, è rimasto a vivere a casa con i genitori per molti anni ancora.
Un’esperienza molto appagante sarà stata anche “Vermiglio”. Cosa ti ha regalato?
“Vermiglio” è stato un progetto grandissimo, meraviglioso e che ho avuto la fortuna di poter fare. È stato un incontro meraviglioso con la regista, Maura Delpero, e una di quelle occasioni che capitano poche volte durante il percorso di un attore. È stato un film che appariva già meraviglioso durante la lettura della sceneggiatura, ma Maura ha saputo renderlo in tutta la sua grandezza. È stato molto interessante poter lavorare a un personaggio femminile così lontano dalle nostre dinamiche e con delle radici così vicine a noi. Adele è stato un personaggio molto profondo su cui lavorare. Era una donna molto moderna, anche nella sua relazione con il marito, pur vivendo in un’epoca particolare.
E “Brennero”?
È stata una prova interessante perché ho potuto lavorare su un personaggio altrettanto lontano da me: un’assassina. Durante l’ultimo anno ho potuto attraversare varie tipologie umane e vari personaggio. È sempre molto stimolante quando avviene.
Ci sono stati incontri fondamentali per te?
Provengo dal teatro e lì ho incontrato persone fondamentali che hanno spostato il mio modo di pensare al lavoro dell’attore. Uno è Armando Punzo, che lavora nel carcere di massima sicurezza di Volterra. Ho fatto con lui due spettacoli, abbiamo collaborato per anni, è stato fondamentale per la mia vita di attrice e ha messo in discussione alcune cose in cui credevo. Un altro incontro importante è stato sicuramente Ronconi.
Che maestro è stato per te Ronconi?
È stato bellissimo poter assistere al suo lavoro. Non ho mai visto un lavoro sul testo così complesso, formativo e completamente totalizzante come quello che ho sentito fare a Ronconi. È stato folgorante e l’avrei ascoltato per ore e quel tipo di lavoro era per me ancora più interessante di quello che accadeva dopo. Era bellissimo poterlo ascoltare, con i suoi passaggi logici, i collegamenti che riusciva a fare, lo spessore e l’umanità che riusciva a dare ai personaggi.
Se fossi una giornalista che domanda faresti a Roberta?
Le chiederei se vale la pena andare avanti nella recitazione. Risponderei che vale la pena andare avanti sempre. In certi momenti il nostro lavoro è difficile e a volte ci sentiamo un po’ abbandonati come categoria.
Dove si trova la spinta per andare avanti?
Nella grande passione per cui abbiamo scelto questo lavoro. Dobbiamo ricordarci sempre da dove siamo partiti, altrimenti si mollerebbe. A volte serve andare a ricercare il germe da quella passione che ci ha animati nella scelta di questo percorso così difficile.
Questo portale si intitola “La voce dello schermo”. Cosa significa per te ascoltare la voce dello schermo?
Significa darmi una possibilità in più per capire meglio le cose e comprendere dove mettermi a seconda di quello che ascolto e vedo.
Di Francesco Sciortino


