“Balene – Amiche per sempre” – diretta da Alessandro Casale, prodotta da FastFilm con Rai Fiction in collaborazione con Marche Film Commission e con un grande cast composto da Veronica Pivetti, Carla Signoris, Giorgio Tirabassi, Paolo Sassanelli, Manuela Mandracchia, Cesare Bocci, Filippo Scicchitano e Laura Adriani – sta conquistando sempre di più il pubblico di Rai 1. In attesa del terzo appuntamento, che andrà in onda domenica 5 ottobre, abbiamo intervistato uno dei grandi protagonisti della nuova serie di Rai 1 e della recitazione italiana: Giorgio Tirabassi. L’attore si è raccontato parlando dell’interessante sfida che ha rappresentato per lui raccontare come un rapporto di antipatia possa trasformarsi in un sentimento di complicità e come dallo scontro si possa arrivare all’incontro tra due persone. Oltre a parlare della serie e del personaggio di Riccardo, Giorgio ci ha regalato un’interessante chiacchierata su altre interpretazioni indimenticabili che hanno segnato la sua straordinaria carriera: da esperienze come “Boris”, “Distretto di Polizia” e “La linea verticale”, che hanno fatto la storia della serialità italana; fino a ricordare lavori cinematografici come “Freaks out” di Gabriele Mainetti e “Il grande salto”, da lui diretto. Infine, l’attore ha ricordato alcuni artisti che hanno contribuito a impreziosire il proprio percorso artistico e che hanno lasciato impronte indelebili sul suo cammino, come Gigi Proietti e Mattia Torre. A voi…

Ti stiamo vedendo in “Balene”, nei panni di Riccardo. Cosa hai amato di questa esperienza e quali corde ti ha permesso di toccare?
Sicuramente le corde della commedia, che sono quelle più piacevoli per un attore. È stato interessante recitare con Veronica (Pivetti ndr.) perché ci conoscevamo, ma non avevamo mai condiviso progetti insieme. Si è creata un’atmosfera piacevole, amichevole e professionale. È stato un set molto divertente ed è stato stimolante raccontare il cambiamento del rapporto tra Riccardo ed Evelina.
Cosa ha significato esplorare il contrasto tra questi due personaggi?
È un meccanismo di commedia che è tra i più divertenti, perché racconta il cambiamento di un rapporto e come un’antipatia reciproca riesca a trasformarsi in una complicità. È un cliché visto diverse volte nella storia del cinema, basta pensare a “La strana coppia” con Lemmon e Matthau.
Perché il pubblico dovrebbe continuare a guardare “Balene”?
Perché vedere una commedia divertente è sicuramente meglio che vederne una non divertente.
Una delle caratteristiche che ti appartiene è sicuramente la capacità di fare commedia con serietà. Come ci si riesce?
Cercando di capire bene qual è l’intenzione di un racconto. Basta comprendere cosa si sta per mettere in scena e leggere attentamente la sceneggiatura per interpretare quello che l’autore ha scritto. Nella commedia c’è tutto quello che accade nella vita reale e le sue sfumature. La nostra vita è fatta di commedia, dagli avvenimenti divertenti, buffi, farseschi alle cose tragiche e drammatiche e può succedere di tutto. Quando si dice: “La commedia della vita” è proprio questo. Non bisogna confonderla con la comicità, che può stare all’interno di questo genere. Anche quella di Dante si chiama ‘commedia’.
Da ‘Balene” ci spostiamo a due personaggi irriverenti: Michele Venturi in ‘Liberi Tutti’ e Glauco Benetti in ‘Boris’. Quanto sono stati importanti per te?
Hanno diverse cose in comune, sono nati dagli stessi autori e presentano un aspetto cinico, disincantato, anti-sentimentalista che è quello che conquista maggiormente il pubblico. Il divertente è sempre apparentemente negativo o politicamente scorretto. I cattivi sono più interessanti dei buoni e, quando si ha la possibilità di interpretarli, è sempre molto più divertente.
Da “Boris” hai avuto modo di lavorare con Mattia Torre. Che artista era?
Era un artista molto creativo e un amico. C’era la complicità e il modo di ridere che c’è tra due amici. Siamo un gruppo che sente molto la mancanza di Mattia. Quando scriveva le cose da solo e lavoravamo assieme anche fuori dal gruppo degli altri due autori, c’era sempre il divertimento, la voglia di ridere molto elegante, colta, non fine a sé stessa ma con uno stile che lo rendeva unico. “La linea verticale” è un lavoro molto personale per vari motivi, sia perché c’era una parte di storia del suo vissuto sia perché c’era un suo umorismo avvicinato al dramma.
Perché pensi sia importante mischiare umorismo e dramma?
Credo che sia un aspetto molto affascinante da raccontare perché, se non c’è il dramma, non c’è la comicità. Nel momento in cui c’è equilibrio, consapevolezza e talento per raccontarlo esce fuori un capolavoro e “La linea verticale” lo è stato. Anche “Liberi tutti” appartiene a quello stile, perché Mattia non era un corpo estraneo al trio. Con Giacomo Ciarrapico e Luca Vendruscolo erano amici da sempre e condividevano quel modo di scrivere e quell’umorismo che portavano nei loro lavori.

“Boris” criticava il mondo delle serie tv italiane. Tu hai fatto parte di una delle serie tv che si contraddistingueva per la qualità mostrata e tra le più amate della televisione italiana: “Distretto di polizia”…
Quella serie nacque da “Ultimo” e, in quegli anni, c’era una televisione che doveva necessariamente cambiare. “Ultimo” fu uno dei primi progetti a utilizzare attori che provenivano dal mondo del cinema. Venivamo tutti da esperienze come “La scorta”, “Il branco” e siamo rusciti a portare una verità che, a quei tempi, ancora in televisione non c’era. Questo ha fatto sì che la gente si interessasse di più ed era come se vedesse il cinema italiano in televisione. Da “Ultimo” è nata una serie che ha mantenuto quelle caratteristiche e quegli ingredienti, raccontando la polizia non da agente segreto in stile 007, ma da lavoratore delle forze dell’ordine e dando un’umanità che poi si è riversata sulla gente. Ci dicevano che le persone si erano avvicinate ancora di più alla polizia e viceversa la polizia alla gente. È stata una serie che raggiungeva una media di nove-dieci milioni di telespettatori a puntata ed era seguita in tutto il mondo.
Che verità ha portato “Distretto di polizia”?
Parlava della polizia italiana, con i protagonisti che avevano accenti differenti: il romano, il siciliano, il napoletano, il toscano e dava un senso di verità. Quel tipo di verità, mischiato al dramma e alla comicità, è commedia. Raccontava un contesto vero, affrontando problemi reali e situazioni che accadevano in quegli anni in Italia all’interno dei commissariati. Gli sceneggiatori hanno attinto dalla cronaca ed è stato uno degli elementi che ha determinato il successo della serie.
Cosa ha rappresentato per te Ardenzi?
Un aspetto anche del mio carattere, perché ovviamente ognuno di noi ha messo del suo al personaggio interpretato. Incarnava la parte più formale, con la testa sulle spalle, l’eroe con i piedi per terra, come tanta gente sale sulla volante e svolge il proprio lavoro. Era molto concreto e c’era molta realtà in quella serie. Mi sentivo sia distante da lui sia vicino, ad esempio il mio rapporto con Ricky Memphis è un rapporto d’amicizia vero, quello che si crea tra amici d’infanzia e di vecchia data.
In questi giorni stiamo vedendo diversi revival. Saresti disposto a tornare in “Distretto di polizia”?
Sono passati tanti anni, non penso saremmo più credibili in quelle vesti. Tuttavia, ricordo quel periodo con molto divertimento e anche di fatica, perché giravamo circa otto mesi, quattro mesi dei quali in esterni e durante l’estate. Inoltre, c’erano tantissime scene da girare in un giorno ed eravamo diventati praticamente delle macchine da guerra. Si era creato uno spirito scolastico e nel lavoro eravamo infallibili. Si girava in pellicola e riuscivamo a portare a casa la scena in due, tre ciak. Realizzavamo cinque, sei scene al giorno, molto diverse l’una dall’altra: dall’interrogatorio drammatico alla scena un po’ più divertente. Erano presenti vari toni nel corso della giornata e tutti eravamo sempre pronti. Anche perché c’erano attori molto portati per l’improvvisazione, come Gianni Ferreri, Vittoria Guerra, Marco Marzocca, Ricky Memphis, tutta gente pronta a prendere al volo l’improvvisazione. C’era il testo, ma anche molta libertà nell’interpretazione.
Una delle esperienze al cinema che ti ha riguardato di recente è stata “Freaks out” con uno dei registi più innovativi di questi anni: Gabriele Mainetti. Cosa hai trovato di accattivante?
Sicuramente la grande produzione. Non si vedono spesso. Inoltre, la storia raccontata era bellissima, l’ambientazione era interessante, c’era una notevole cura dei costumi, delle scene e di tutti i dettagli. Sembrava di trovarsi all’interno di una produzione americana.
La carriera di un attore è fatta anche di incontri. Due tra più importanti sono stati sicuramente quello con Gigi Proietti ed Ettore Scola. Che impronta ti hanno lasciato?
Gigi Proietti mi ha lasciato sicuramente un’impronta indelebile. Ha rappresentato la formazione scolastica, dal momento che avevo poco più di vent’anni e mi sono ritrovato in uno dei palcoscenici più importanti d’Italia. Con lui ho fatto delle tournée che mi hanno formato tecnicamente, oltre alle altre esperienze. Scola è stato un passo in più che mi ha permesso di capire cosa significhi lavorare con un grande autore.
“Il grande salto” ti ha permesso anche di cimentarti alla regia. Che effetto ha fatto passare dietro la macchina da presa?
Mi ero già messo alla prova dietro la macchina da presa, sia con un cortometraggio sia in altre esperienze. È stato un processo naturale. Vivendo il set ogni giorno, continuamente per mesi e per tanti anni, inevitabilmente comprendi le basi della grammatica cinematografica e sei in grado di dirigere un film. È stata una cosa naturale, che rifarei molto volentieri ed è forse quello che mi piacerebbe di più fare.
E che rifarai?
Beh, vedo tanta difficoltà nel realizzare un film, anche perché, se non coincide con le esigenze delle piattaforme, diventa molto complicato. I produttori sentono prima se va bene il prodotto perché, per forza di cose, va a finire sulle piattaforme. Ormai spesso in sala si fanno soltanto delle uscite tecniche per poi quasi subito andare sulle piattaforme. La distribuzione è ormai la piattaforma e bisogna fare un prodotto riconoscibile.
Di Francesco Sciortino


