Breaking
Lun. Nov 10th, 2025

Intervista a Roberta Mattei: “Sono in continua ricerca di un’evoluzione. Caligari era un poeta del cinema” L’attrice si racconta su “La voce dello schermo” in occasione del ritorno nelle sale di “Non essere cattivo” e della sua recente interpretazione in “The twisted tale of Amanda Knox”.

Ott 28, 2025
Foto di Michela Amadei (Madhatter)

Roberta Mattei ci ha regalato interpretazioni accattivanti e impegnative tra cinema e serialità degli ultimi anni. Battezzata artisticamente da Claudio Caligari in “Non essere cattivo” e da Matteo Rovere in “Veloce come il vento”, che le ha permesso di raggiungere la candidatura ai David di Donatello, l’attrice da allora non si è più fermata. Roberta ha, infatti, dimostrato una grande versatilità cimentandosi sia nella commedia, recitando in film come “Il primo Natale” con Ficarra e Picone e in “Omicidio all’italiana” di Maccio Capatonda, sia in serie complesse e mai banali come “Anna” di Niccolò Ammaniti e nella più recente “The twisted tale of Amanda Knox”.
Abbiamo intervistato proprio Roberta Mattei in occasione del ritorno nelle sale di “Non essere cattivo” di Claudio Caligari – il 27, 28 e 29 ottobre – e dell’interpretazione in “The twisted tale of Amanda Knox”. L’attrice si è raccontata – su “La voce dello schermo” – partendo dalla recente esperienza nella serie in streaming su Disney+, proseguendo ricordando le tappe più importanti della propria carriera e regalandoci qualche anticipazione su “Cagnàz”, la nuova serie diretta da Alessandro Roia in cui la vedremo prossimamente. A voi…

Foto di Michela Amadei (Madhatter)

Ti abbiamo vista in “The twisted tale of Amanda Knox”. Com’è stato raccontare questa storia?

Quando sono stata scelta per questa serie non sapevo che tra i produttori ci fosse Amanda Knox. Ho capito dopo che stavo per rappresentare la sua versione dei fatti e la sua visione. È stata un’esperienza particolare e difficile perché da una parte c’era una persona che rivendicava la propria innocenza e che aveva voglia di raccontarla e dall’altra dei fatti che non sapremo mai come sono andati. Ognuno si fa un’opinione delle cose. Vent’anni fa avevo un’idea che è cambiata perché, nel tempo, sono venuta a conoscenza di fatti che non conoscevo. È una storia che mi ha insegnato a sospendere il giudizio perché non si può avere un’opinione su qualcosa che non conosci e che non hai vissuto. È stato interessante perché c’è stato tanto tatto e riguardo nei confronti della vittima. Inoltre, la serie non si scaglia contro e non colpevolizza qualcuno. È stata mantenuta un’umanità per tutti i personaggi.

Ultimamente il crime è sempre più presente nella nostra televisione. Che opinione hai a riguardo?

Il crime sta prendendo molto piede, è vero. Dobbiamo però comprendere che, in alcune circostanze, potrebbe pure distruggere il concetto di fantasia che c’è al cinema. Un conto è documentare un’indagine d’inchiesta per poter mettere in discussione un evento e rivalutarlo sotto altri punti di vista, un altro è il gusto continuo di parlare di omicidi e di persone che sono state massacrate. In questo caso mi domando a cosa serva a livello artistico. Andrebbe rivisto, secondo me, l’intervento della stampa e della televisione all’interno di casi così importanti e così delicati perché, a volte, allontanano dalla verità, cercando il sensazionalismo, il colpevole a tutti costi o parlando senza tenere in considerazione gli atti.

In “Omicidio all’italiana” hai dovuto raccontare con sarcasmo e ironia questo aspetto…

Sì, il film inizialmente si interroga su cosa sia l’uomo, di cosa abbia bisogno e perché trovi così tanto appagamento in una catastrofe. Racconta che i nuovi mostri sono le persone che spettacolarizzano il dolore degli altri, che non hanno un freno nel pensare alla vita privata di chi è coinvolto e che si sentono diritto di avere un’opinione su qualcosa che non conoscono.

In che modo la serie si discosta da prodotti che provano a spettacolarizzare un caso delicato?

Perché l’opinione di una persona coinvolta va rispettata e ognuno ha diritto di dire la sua. Non sapendo la verità, non possiamo conoscere cosa abbia passato Amanda Knox, come sia stata messa al bando dalla società, cosa significhi crescere dei figli sapendo che un giorno conosceranno ciò che ha passato. Mi piace questa storia perché racconta un punto di vista di una persona che lotta per i propri diritti e come abbia reagito al carcere. Quando la guardo dimentico che è Amanda Knox.

Com’è stato interpretare il personaggio di Valentina Greco?

Ci siamo un po’ ispirati alla storia vera, ma su di lei abbiamo lavorato anche molto a livello artistico. Siamo partiti dalla sua parte istintiva, perché è una donna che ha utilizzato molto il suo sesto senso per basare le proprie indagini. È convinta che Amanda Knox sia colpevole, ma non lo fa in base a fatti scientifici, ma perché la osserva e non la convince. Commise un errore perché un poliziotto non dovrebbe basarsi soltanto sulle sensazioni. A volte noi ci creiamo dei giudizi perché un viso o un atteggiamento ci suggerisce qualcosa. Allo stesso tempo, però, lei è una professionista del suo lavoro e fa il suo dovere. Era un periodo in cui qualsiasi poliziotta dell’omicidi avrebbe sognato di risolvere un caso del genere. Lei è una persona divisa tra senso del dovere e il controllare il proprio istinto, che sarà la parte che la porterà a decidere in maniera errata.

Quale sfida ha rappresentato questo personaggio per te?

Mi ha portato ad allontanarmi da una naturalezza che mi viene richiesta in altri personaggi. Possiede la propria caricatura: il modo di camminare, il conflitto tra essere fisicamente molto curata, il masticare la gomma e il suo modo di oscillare tra femminilità e animalità. La sfida era di mettersi al servizio della storia e di capire che era una donna che trovava difficile accettare la sconfitta.

Hai lavorato in commedie interessanti come ne “Il primo Natale” di Ficarra e Picone e in “Omicidio all’italiana” di Maccio Capatonda. Che esperienze sono state per te?

“Omicidio all’italiana” mi ha portata a stare al servizio di uno degli autori geniali e grotteschi che abbiamo in Italia. Rappresentavo l’unico personaggio normale e lo spettatore coscienzioso, ovvero colui che osservava una realtà malata e che aveva le mani legate. Era lo stupore di fronte a qualsiasi atteggiamento umano terribile. Ficarra e Picone, invece, sono degli autori più tipici della narrazione tradizionale, portano avanti la tradizione della maschera, hanno una capacità grandiosa di coinvolgere gli attori e il loro stile si ispira a Franco Franchi, Troisi e Totò. Dovevo calarmi nella Palestina dell’anno zero e rivivere gli anni di Gesù, con i valori dell’epoca e girando un film molto suggestivo. Ficarra e Picone possiedono un linguaggio che mostra storie un po’ più rassicuranti; Maccio invece fa il contrario.

“Non essere cattivo” di Claudio Caligari torna nelle sale il 27 – 28 e 29 ottobre per celebrare i dieci anni dall’uscita. Cosa ha significato per te far parte di un progetto che ti ha avvicinato al cinema d’autore e interpretare Linda?

Ha rappresentato tantissimo perché ho sempre avuto il timore di non riuscire a fare cinema d’autore. Da piccola avevo la Biblioteca Pier Paolo Pasolini di fronte casa mia ed è un autore che è entrato nella mia vita sotto diverse forme. Lavorare con Caligari mi ha permesso di realizzare un obiettivo importante, quello di lavorare con un poeta del cinema e con un intellettuale. È stato come ascoltare tutti gli album di De André.

Foto di Matteo Graia

Interpretare Annarella in “Veloce come il vento”, invece, ti ha permesso di raggiungere la candidatura al David di Donatello…

È stato il primo vero personaggio cinematografico che ho affrontato ed è stato importante perché l’idea che abbiamo dei tossicodipendenti è sempre diversa rispetto a quella che ti fai frequentandoli. In quel periodo, abbattere la paura che avevo nei loro confronti è diventata la mia sfida. Non volevo creare stereotipi ma raccontare la storia di una fragilità, di un’impossibilità del cambiamento e di poter vivere la vita in un certo modo. Tutto il mondo che un tossicodipendente si porta dentro è fatto di nostalgia, di paura e di amore per il vizio ma proviene sempre da qualcosa che manca all’interno. È stato molto commovente interpretare Annarella e per abbracciare dei dolori così puoi soltanto ascoltare, alzare le mani e non giudicare.

Quale pensi sia stata la sfida interpretativa più grande che hai affrontato?

Sicuramente interpretare “La Picciridduna” in “Anna” di Ammaniti. Era un personaggio particolare, un’ermafrodita che racconta una storia di accettazione di sé stessa. Ci furono diverse scene di nudo ma era un personaggio difficile soprattutto perché parlava poco, era pieno di intenzioni, un apparente succube che aveva una grande personalità che non riusciva a fare uscire. Si muoveva più sui non detti che sui detti. Era importante e impegnativo mantenere la potenza dello sguardo e del pensiero non avendo a disposizione tanto testo.

Cosa è riuscita a regalarti una prova così impegnativa?

Sicuramente il mood del suo mondo mi è rimasto attaccato un po’. Si parlava di un virus e, nel momento in cui abbiamo finito, è scoppiata l’ondata del Covid. Sembrava surreale entrare nel mondo di una ragazza siciliana che non può mostrarsi, che non può dire chi è e che non l’ha ancora capito e che elimina le relazioni sociali esterne alla sua famiglia per non cadere nell’impaccio di doversi relazionare. È una cosa abbastanza attuale.

In che modo ti è rimasto attaccato il suo modo di essere?

La Picciridduna non era una persona che ostentava, ma toglieva, che ridimensionava e che non cercava la trasgressione a tutti i costi. Apparteneva a quel mondo del “non posso”, che ti porta al silenzio, alla solitudine, al non condividere, allo stare da sola con te stessa e più ci stai più diventa un’abitudine mentale. Quando lo interpreti per cinque mesi torni continuando a stare nel tuo silenzio e comunicando poco. Mi sono portata addosso una sensazione di una persona che, da una gabbia identitaria, finisce legata a una catena a servizio di una folle. Era una prigione continua fino al suo atto di ribellione, coltivato però nel silenzio.

Foto di Matteo Graia

Riguardo i progetti futuri, c’è qualcosa che puoi dirci?

Faccio parte del cast di “Cagnàz” scritta da Carlo Lucarelli e mi vede in compagnia di bravissimi professionisti, interpreto un sostituto procuratore e sarà incentrata sul mondo della criminalità in provincia di Rimini. È un progetto che valorizza il femminile. Vedremo le donne al posto di comando, che dirigono, prendono decisioni, ascoltano, osservano ed entrano in azione. Ha delle caratteristiche del crime e altre che la rendono una serie più leggera del classico poliziesco. È bello lavorare nuovamente con Alessandro Roia e credo che abbia un ottimo talento per la regia. Sono contenta di far parte di questo secondo suo progetto. Inoltre, ho altri due progetti bellissimi che mi riguardano – uno internazionale e uno italiano – come attrice e allo stesso tempo come produttrice, per completare la ricerca fondi. 

Se fossi una giornalista che domanda faresti a Roberta?

Le chiederei: “Qual è il motivo che spinge un attore a fare questo mestiere?” e risponderei che un attore fa questo lavoro per una forma di ricerca di evoluzione, di conoscenza, di sé stesso e degli altri e per una capacità di sviluppo del senso della critica. Tutto ciò che riguarda l’essere umano può essere messo all’interno di questo mestiere, cosa che non accade per gli atri lavori. Ogni storia è fonte d’ispirazione e ti costringe a fare i conti con i tuoi blocchi interni, se vuoi essere un attore che vuole mettersi alla prova.

Cosa significa evolversi per te?

Evolversi significa innalzare il livello di coscienza e di consapevolezza. L’evoluzione, oltre a essere intellettuale e fisica, è di base spirituale. Il resto è conoscenza. Un’evoluzione ti permette di escludere sempre meno e di includere sempre di più.

Come ti evolvi artisticamente?

Cerco di guardare cose belle, fatte attraverso un processo creativo lungo. Nonostante sia chiamata spesso a fare un cinema naturalista o neorealista, in realtà mi piacciono tantissimo i linguaggi complessi e le avanguardie. L’evoluzione avviene studiando, leggendo, scegliendo quello che vuoi fare e non facendoti scegliere da ciò che ti viene proposto. Nasce dalla necessità di cosa vuoi raccontare piuttosto che dal raccontare a prescindere.

Questo portale si intitola “La voce dello schermo”. Cosa significa per te ascoltare la voce dello schermo?

Significa ascoltare una delle tante illusioni dell’uomo.

Di Francesco Sciortino

By lavocedelloschermo

Francesco Sciortino, giornalista pubblicista dal 2014, appassionato di serie tv, cinema e doppiaggio. In passato cofondatore della testata online “Ed è subito serial”.

You Missed

Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookie da parte nostra. maggiori informazioni

Questo sito utilizza i cookie per fornire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o cliccando su "Accetta" permetti il loro utilizzo.

Chiudi