Vincenzo Pirrotta è un attore e un regista cinematografico e teatrale che ci ha regalato interpretazioni e prodotti indimenticabili. In queste settimane lo stiamo vedendo vestire i panni di Mussolini nell’acclamatissimo “Duse” di Pietro Marcello, di recente l’abbiamo ammirato ne “L’abbaglio” di Roberto Andò e Tracina in “The Bad Guy” rimane uno dei personaggi più iconici e affascinanti della serie diretta dal duo Stasi e Fontana. Il suo “Spaccaossa”, con Selene Caramazza e Ninni Bruschetta, ha avuto un enorme successo di critica, sfiorando anche un David di Donatello e un Nastro D’argento. Oltre al cinema e alle serie tv, Vincenzo vanta una grandissima carriera teatrale e continua a coltivare il proprio amore nei confronti del palcoscenico in tantissimi spettacoli.
Lo abbiamo intervistato, su “La voce dello schermo”, partendo da “Duse” fino a ripercorrere le esperienze che ci hanno permesso di apprezzarlo sia come attore, in cui ha dovuto interpretare anche personaggi controversi come Mussolini e Tracina, sia come regista cinematografico e teatrale. A voi…

Ti stiamo vedendo in “Duse”, di Pietro Marcello. Com’è stato interpretare Mussolini dopo il clamore che ha suscitato “M. – Il figlio del secolo” con Luca Marinelli?
Non era la prima volta che lo interpretavo, dal momento che avevo già vestito i suoi panni ne “Il Cattivo Poeta”, ma era stata più una partecipazione. In “Duse” è stata un’interpretazione più intensa e un’esperienza bellissima. Pietro Marcello è un genio folle, mi porto a casa un lavoro magnifico con lui e con Valeria (Bruni Tedeschi ndr.).
Come ha sostenuto anche Luca (Marinelli ndr.), accettare di calarsi nei panni di un personaggio che ti sta in odio è una cosa che vivi sulla tua pelle, dal momento che noi attori facciamo un percorso di compenetrazione molto forte. Il Mussolini del film di Marcello è ancora quello dei retaggi socialisti e non è ancora il Duce. Questo ha alleviato un po’ l’interpretazione ma, nel momento in cui ho vestito i suoi panni, sapevo comunque di interpretare lui.
Per vestire i panni del Mussolini di “Duse” hai dovuto affrontare un percorso complesso…
Sì, per prima cosa mi sono permesso di proporre a Pietro Marcello di renderlo con un leggero accento romagnolo e credo l’abbia caratterizzato un po’ e lo abbia reso più umano dal punto di vista interpretativo. Inoltre, assieme a Pietro, abbiamo deciso di rendere la sua malvagità concentrata sullo sguardo che possiede un doppio valore.
In che modo?
Nelle prime scene, quando va a teatro a vedere “La donna del mare”, è quasi imbarazzato tra la nobiltà e il lusso, è deputato da poco e ha da poco iniziato il suo percorso di fascistizzazione, possedendo ancora degli echi del socialismo. Nelle scene finali, invece, quando la Duse gli porta il plastico della scuola teatro, capiamo che non soltanto possiede un ego smisurato e un delirio di onnipotenza estremo, ma ne è talmente preso da non riuscire a comprendere il senso di ciò che la Duse vuole proporgli. La liquida subito dicendole: “Non ha più debiti, li paghiamo noi”. Lei sognava e aveva un progetto di vita e mentre parlava di poesia, lui rispondeva con superficialità. Ancora peggiore risulta la frase: “Io e lei faremo grande l’Italia”, perché intendeva dire che soltanto lui avrebbe fatto grande l’Italia.
Come si affronta un personaggio del genere?
Mi sono trovato diverse volte a interpretare dei ruoli che mi lasciavano devastato sia a teatro sia nell’audiovisivo. Anche Salvatore Tracina in “The Bad Guy” è un personaggio spietato. Avvicinarti a questi personaggi ti porta a confrontarti con le tue emozioni e con la psicologia. Ho un approccio più brechtiano che stanislavskiano e tendo sempre a lasciare il personaggio in camerino, allontanandomene e non portandomelo dietro. Ma capisco anche che ci sono colleghi che hanno un approccio al ruolo che tende all’opposto.
Com’è stato tornare alla Mostra del cinema di Venezia?
È sempre una bella giostra di emozioni, è stato bello ritrovare i colleghi sul red carpet ed emozionarsi vedendo il film tutti insieme. Mi venivano in mente i ricordi delle volte precedenti, quando ho partecipato con “Spaccaossa” – che è stata un’emozione particolare – con “Noi credevamo” e con “Prove per una tragedia siciliana”. Sono sempre occasioni importanti per valorizzare il nostro cinema, soprattutto in questo periodo che vive un momento di grandi interrogativi e difficoltà. Il novanta percento del comparto non lavora, le produzioni sono rallentate e c’è una grande difficoltà. Ritrovarsi lì, con dei film italiani che hanno fatto parlare di sé, da Sorrentino a “Un film fatto per bene” di Maresco, con degli accenti importanti rispetto ai temi trattati, credo abbia un significato importante.
Come mai si assiste a un cinema che cresce dal punto di vista qualitativo ma che soffre?
Credo sia una questione politica, perché ancora non si è trovata una strada giusta per fare una riforma che riguardi dei finanziamenti pubblici importanti. È inutile negarlo, non ci sono tantissimi finanziamenti privati, se non alcune eccezioni, e non abbiamo la forza dei grandi studios privati. Siamo ancora legati ai finanziamenti pubblici e non si riesce a trovare una strada per una riforma seria. A volte è bloccata da prese di posizione, altre volte non si trova il tempo per riunirsi tutti insieme e cercare di farla. Sono tutti elementi che incidono sulle produzioni, io stesso sto aspettando il finanziamento da due anni e mezzo per il film. Sono convinto che una riforma vada fatta, ma bisogna farla in fretta e con persone che si occupano di questo e non con gente non appartenente specificamente ai lavoratori del mondo del cinema.
Tornando alle interpretazioni, Tracina in “The Bad Guy” è un personaggio molto iconico. Cosa ti ha lasciato questa esperienza e questo ruolo?
È stata un’esperienza bellissima perché Stasi e Fontana hanno un’idea di cinema, un entusiasmo e una voglia di farlo in un certo modo che rende tutto più affascinante. Sono eccezionali, intelligentissimi e sanno che tipo di prodotto vogliono realizzare. Inoltre, Luigi Lo Cascio è per me un fratello ed è stato un plus in questa esperienza. Mi fa sorridere il fatto che ho interpretato personaggi di ogni tipo nella mia carriera ed esplorato Euripide, Eschilo, Pirandello, Shakespeare e la gente mi ferma per strada e mi riconosce per Salvatore Tracina. È una serie che in Italia ha rappresentato quasi un punto di passaggio perché Giuseppe e Giancarlo hanno dimostrato che si può fare serialità in un certo modo e non avendo nulla da invidiare agli americani, che hanno risorse diverse delle nostre.
Qual è la forza di Stasi e Fontana, secondo te?
Cercano sempre l’originalità, l’intentato, l’inaudito e l’idea che destabilizza sempre lo spettatore, non dandogli quello che lo spettatore vuole e stupendolo.

Di recente ti abbiamo visto anche ne “L’abbaglio” di Roberto Andò…
Sì, è stata un’esperienza bellissima perché condividere il set con degli amici e dei grandi professionisti è sempre un divertimento, nonostante il grande lavoro che comporta. È stato bello condividere il set con Salvo (Ficarra ndr), Valentino (Picone ndr), Toni (Servillo ndr) e Giulia (Andò ndr). Con Roberto (Andò ndr), inoltre, mi lega un grande rapporto d’amicizia e abbiamo lavorato insieme a teatro. Ho trovato un clima di grande partecipazione ed entusiasmo. Infine, la storia era poco conosciuta e personalmente l’avevo sentita dai racconti di mia nonna. Me la portavo dietro da quando ero bambino e l’avevo quasi dimenticata, l’ho ritrovata prima leggendo Sciascia e successivamente in questo film.
“Spaccaossa”, da te diretto e interpretato, ti ha regalato tanto, dalla candidatura ai David di Donatello a quella ai Nastri D’argento e al premio della critica a Tallinn. Cosa ti ha lasciato questo progetto?
Sicuramente mi ha portato diverse soddisfazioni e ha rappresentato la scoperta di qualcosa di nuovo, faticosissimo ma entusiasmante. Mi sentivo come un bambino che, nel momento in cui mi approcciavo a un gioco nuovo, non mi limitavo soltanto a giocarci, ma cercavo di capire i suoi meccanismi, di portarli a me o di inventarne di nuovi. Dopo aver giocato tantissimo in teatro, mi sono messo alla prova con il giocattolo del cinema, provando a comprendere i meccanismi per poi cercare di farli miei e per trovare una cifra per giocare alla mia maniera al suo interno.
Quando è maturata l’idea di realizzare questo film?
Ci ho messo un po’ di tempo per capire quale film volessi fare. Poi venni a conoscenza di quella notizia da cui è tratto il film e arrivò come un pugno allo stomaco e mi ha fatto comprendere che quello poteva essere l’inizio di una nuova avventura per me. Ho capito come potesse essere congeniale ai miei punti di riferimento del cinema, che incarnavano un certo tipo di neorealismo da denuncia – tipico di film che sono stati fondamentali per me e che ho condiviso per il modo di raccontare le storie per il modo asciutto, essendo emozionante ma senza sentimentalismo, come “Ladri di biciclette” – e soprattutto “Il Magistero” di Pier Paolo Pasolini.
Dobbiamo aspettarci presto un nuovo progetto alla regia?
Sì. Sto lavorando a “Tre madri”, film da me diretto e con la sceneggiatura scritta da Giulia Andò con la mia collaborazione. Siamo in preparazione e cominceremo a girarlo il prossimo anno.
Il teatro è un altro mondo che ti appartiene tanto. Cosa ami di questa dimensione?
Sono nato artisticamente a teatro, amo il legame con il pubblico. Sono reduce dell’esperienze di “Terra Matta” e il grande rapporto con il pubblico di sera in sera ti dà delle sensazioni diverse, senti le emozioni, la carne viva che sta dall’altra parte che ti sta guardando e le reazioni del pubblico arrivano immediatamente. Il teatro offre l’immediatezza delle emozioni.
Si parla tanto del suo essere formativo per gli attori. In che modo può esserlo per un regista?
È una palestra per trovare la tua identità da artista e la tua poetica. Mentre nel cinema c’è la poetica, il senso dell’emozionare nel raccontare una storia e molta tecnica che accompagna le scelte poetiche e artistiche; il teatro, invece, è come se fosse una sorta di Eden della poesia, ti butti e non hai la rete: se non lo fai bene, rischi di farti male.
Ci sono stati degli incontri che hanno contribuito in modo particolare alla tua formazione da attore?
Sicuramente indicherei due nomi che sono stati per me dei maestri: il primo è Mimmo Cuticchio, che mi ha insegnato il modo di raccontare le cose cercando sempre un’originalità. Il secondo è Roberto De Simone, che è scomparso da poco e mi ha aperto un mondo e una finestra su certi ritmi, vocalità e un tipo dell’utilizzo della voce. Sono stati due maestri fondamentali.
Se dovessi, invece, sintetizzare le tappe fondamentali della tua carriera quali sceglieresti?
Una tappa fondamentale è stato il primo testo teatrale che ho scritto, “N’gnanzoù”, che mi ha fatto capire che potevo raccontare delle storie non cercandolo dagli altri, ma scrivendolo da me stesso. Inoltre, il grande successo che hanno avuto le mie “Eumenidi” alla Biennale di Venezia che sono state un trampolino di lancio nel teatro d’autore italiano e mi hanno dato la possibilità di lavorare con grandissimi maestri come Roberto Andò, Giancarlo Sepe, Giancarlo Sbragia, Mario Martone e tanti altri. Ma sono tante le tappe a teatro che hanno segnato molto il mio percorso.
Riguardo il cinema, invece?
Per quanto riguarda il cinema, devo citare anche Marco Bellocchio ne “Il Traditore”, un altro grande maestro del cinema, l’esperienza con John Turturro e di recente mi sono trovato benissimo con Pietro Marcello, che è una persona e un regista che sa quello che vuole e ha le idee molto chiare. Ma nel mio percorso ci sono un sacco di persone importanti che mi hanno accompagnato e mi dispiace dimenticarne qualcuna.
Ogni regista ha il proprio marchio di fabbrica, la propria “Z” di Zorro e i propri tratti distintivi. Quali pensi siano i tuoi?
La vocalità, il corpo e il chiamare in causa lo spettatore, perché non penso debba rimanere seduto e comodo nella poltrona ma deve sentirsi coinvolto.
Dove ti vedremo prossimamente?
Sarò ne “La bambina di Chernobyl”, opera prima di Massimo Nardin, prodotta da Cine1 Italia e Marche Film e in cui sono il protagonista insieme a Yeva Sai. È una storia molto intrigante e un thriller psicologico. Inoltre, farò parte di un’altra opera prima, “Lo Scuru” di William Lombardo.
Se fossi un giornalista che domanda faresti a Vincenzo?
Forse gli chiederei: “Cosa non racconteresti mai pur essendo consapevole che quella storia avrebbe un successo enorme?” e credo che forse non racconterei una certa intimità che ha a che fare con la spiritualità perché non avrei il pudore di raccontare qualche cosa che deve restare nell’intimità e non può essere né compresa o strumentalizzata. Credo che certe cose, che oggi si stanno perdendo, debbano restare dentro ognuno di noi. Oggi non abbiamo il riserbo di conservare per noi certe cose ed è una deriva che, secondo me, non è un buon segno. Stiamo perdendo la spiritualità, nel senso più ampio del termine, e la svendiamo in un mercato che banalizza le cose che in realtà sono preziose.
Questo portale si intitola “La voce dello schermo”. Cosa significa per te ascoltare la voce dello schermo?
Significa tuffarsi in un mondo in cui puoi metterti a nudo. È come guardarsi allo specchio ma rimandandoti a tanti immagini. Davanti a uno schermo sei inerme di fronte alle emozioni che ti trasmette. La voce dello schermo è uno specchio dell’anima.
Di Francesco Sciortino

